|
Chiesa di Santa Cristina (a sinistra, C. di
Castellamonte, 1639)
e Chiesa di San Carlo (a destra, M. Valperga, 1619).
18 gennaio 2013 -
Le immagini torinesi di Mario Monge non fanno parte di un progetto narrativo
specifico dedicato dall'autore scomparso alla sua città. Rappresentano la
testimonianza dello stile con cui Monge si rapportava con la memoria.
Come i suoi ritratti di persone, la maggior parte delle vedute cittadine è
accompagnata da particolari che integrano o commentano il soggetto ripreso.
Che si tratti di un insolito azzurro del cielo o di un dettaglio altrettanto
inusuale che affianca o caratterizza il tema principale, si avverte ogni
volta il bisogno dell'autore di alleggerire il peso incombente della memoria
attualizzando la forza di gravità di quest'ultima con una citazione ironica
o con uno scherzo. Il risultato non è mai frutto di improvvisazione o di una
poetica d'occasione quanto dei lunghi appostamenti del fotografo alla
ricerca sistematica del dettaglio intorno al quale costruire una figura
memorabile. Si vede qui la scuola del ritrattista che compone l'immagine
secondo un progetto grafico già delineato, quando non la migliora con
interventi dell'ultima ora alla maniera di Wegee.
Monumento a Emanuele
Filiberto di Savoia (Carlo Marocchetti, 1838).
Nel tentativo del tutto arbitrario di dare un ordine al lavoro di Monge, si
possono individuare due Torino, quella ottocentesca dei monumenti accanto
alla città barocca e neoclassica dei palazzi, delle chiese e delle piazze.
Buona parte dei monumenti, specialmente quelli bronzei, trovano posto in
spazi dominati da facciate barocche. Così succede che due ipotetici
visitatori della città —uno a caccia di monumenti, l'altro di edifici
barocchi— a forza di incontrarsi nel seguire i propri itinerari distinti,
finiscano anche per conoscersi nell‘ammirazione della stessa veduta.
Piazza San Carlo è presente in tre immagini in cui le facciate contigue
delle chiese di San Carlo e Santa Cristina sono riprese una prima volta su
uno sfondo azzurro cupo e come due pale d'altare dorate, o se si vuole come
pezzi di raffinata ebanisteria firmata dal grande mobiliere Pietro Piffetti.
e una seconda come i volti ammonitori degli spiriti della piazza, assorti
nell'attesa che il salotto della città, dopo la parentesi invasiva delle
automobili, torni a essere quello che era. Quanto alla statua equestre di
Emanuele Filiberto di Savoia, del Marocchetti, in un caso è trasformata in
un oggetto decorativo da scrivania per effetto della miniaturizzazione
fotografica, nell'altro si impone sullo spazio circostante in forza del
diritto di esclusiva dovuto alla sua fama.
Tenacemente impegnato a confrontarsi con il déja vu della città, quale
potrebbe essere il caso delle viste del Po e le sue rive, Monge dedica
numerose immagini al maggiore fiume cittadino, le cui acque appaiono ora
come il liquido versato da una boccetta d'inchiostro ora come la coperta di
lana rimboccata intorno alla quiete del loro scorrere. In altre immagini il
fiume torna a essere il luogo del silenzio, dei tramonti e del freddo
invernale, o lo spazio privilegiato di attività sportive, segno di quanto
rimane delle attività di navigazione del passato.
Palazzo Carignano (Guarino Guarini, 1685).
Palazzo Carignano e Palazzo Accademia delle Scienze. oltre a essere contigui
ed entrambi opera del Guarini, sono uniti dal particolare di dovere la loro
bellezza all'uso dei mattoni rossi del Piemonte, un materiale che assicura
alla facciata di Palazzo Carignano l'eleganza austera di un reliquiario di
campagna. Di qui l'attenzione dedicata da Monge agli effetti prodotti dalla
frastagliatura degli spigoli della facciata grazie alla quale il palazzo si
propone agli occhi dell'osservatore in modi sempre diversi a seconda della
luce che riceve.
Si è detto in proposito che a certe ore del giorno l'edificio può assumere
l'aspetto di una maschera di cera. Tale ce lo restituisce ora una immagine
nella quale il monumento antistante di Vincenzo Gioberti e il fregio
posticcio che dedica il palazzo a Vittorio Emanuele II sono fusi nello
stesso e lugubre colore verdognolo.
Tutto qui intorno era austero e silenzioso e sapeva di sacrestia, di
vernici, di cioccolato e di botteghe artigiane piuttosto che di alti comandi
e di campi di battaglia. La sera del 13 marzo del 1821, affacciatosi al
balcone di Palazzo Carignano per leggere al lume di candela e senza
microfoni il proclama che annunciava la Costituzione alla popolazione
riunita nella piazza, Carlo Alberto dovette trovarsi in un'atmosfera intima.
Torino ha conservato un aspetto severo non per via di una grandiosità
assente, quanto a causa della sua tradizione militare e della geometria
squadrata delle strade rettilinee, che si prestano alle parate e riflettono
una mentalità portata all'ordine. Inoltre Torino ha molti monumenti senza
essere monumentale. I suoi edifici di pregio sono i palazzi delle famiglie
nobili o dell'alta borghesia e le chiese.
Cappella della Sindone (Guarino Guarini, 1694).
La presenza di architetti di valore, quali il padre teatino modenese Guarino
Guarini e il messinese Filippo Juvarra, ha ottenuto che le caratteristiche
dello spirito cittadino fossero riflesse in metafore architettoniche di
segno aristocratico, talora addirittura esotico. E mi riferisco alla forma
della cupola di San Lorenzo, che richiama la geometria di certe moschee
musulmane, mentre quella della cappella in cui è custodita la Sindone,
specialmente nella luce notturna in cui è stata colta da Monge, si ispira
alla foggia del copricapo di un sultano.
Non era certo nelle intenzioni di Vittorio Amedeo II e del Principe Eugenio
—i quali ne decisero la costruzione dopo la vittoria sui Francesi del 6
settembre 1706— né nei propositi di Filippo Juvarra, incaricato del progetto,
che la Basilica di Superga diventasse quel simbolo di gelo, di lontananza e
di solitudine in cui è vista oggi. Nata in adempimento di un voto formulato
dai due illustri Savoia nel punto in cui ora sorge, posizione dalla quale
avevano osservato l'assedio della città, la solenne costruzione si è
caricata col tempo di riferimenti funebri per aver dato ospitalità nei suoi sotterranei alle tombe di casa Savoia nonché all'essere stata il luogo
in cui si è verificato l'incidente aereo che ha annientata la squadra di
calcio del Torino.
Basilica di Superga (Filippo Juvarra, 1731).
Il senso di freddezza che caratterizza la basilica ha suggerito a Monge le
immagini in cui questa è ripresa ora in solitario colloquio con la luna e le
nuvole, ora nel profilo reso incerto e lontano da un vetro appannato di
pioggia che la divide dell'osservatore.
Torino è anche città di clamorosi abbandoni. Alludo a quelli di cui, nella
loro grandiosità, si sono resi responsabili i Savoia, i quali, dopo aver
prodigato risorse ingenti nella costruzione di sontuose regge, se ne sono
disinteressati, indifferenti all'incuria in cui queste costruzioni sarebbero
cadute. Ripristinate alla loro passata bellezza, ora ricompaiono nelle
immagini di Monge tra fiori, prati verdi, cancellate restaurate e inattesi
trompe l'oeil.
La tradizione di città delle teste risalente a Madama Reale si è rinnovata
in occasione dell'iniziativa natalizia Luci d'artista. In quell'ambito
vediamo la Stazione di Porta Nuova trasformata in un fiabesco palazzo
orientale popolato dalle figure poste da Emanuele Luzzati intorno al suo
presepe.
Oltre che città barocca, Torino era città neoclassica. Nell'immagine
dedicata al tempio della Gran Madre di Dio, molto opportunamente ripreso da
Monge non disgiunto dagli edifici che fecero parte dello stesso progetto, la
particolare atmosfera algida e distaccata voluta dall'architetto Bonsignore
risulta in grande evidenza. Fotografando l'insieme in un momento di assenza
di persone, Monge ha restituito il tempio ai silenzi pagani di chi lo aveva
concepito.
E cosi siamo arrivati a Nietzsche. In una pagina dedicata a Monge in
occasione di una mostra sul suo lavoro, Gianni Vattimo ha osservato come la
fissità dell'immagine fotografica di certi scorci architettonici della
città, aperti sulle montagne vicine. si prestasse a interpretare la
sensibilità del filosofo tedesco, interessato a cogliere nella sintesi tra
severità e leggerezza la prova del connubio tra eternità e attimo, il cui
rapporto era presente alla sua coscienza in quel particolare momento.
L'osservazione è quanto mai felice, tanto più se si considera che lo
spettacolo di vitalità offerto dal movimento barocco non si era spento
rispondendo ancora al rumore di fondo prodotto dalle conquiste scientifiche
della stessa epoca rivolte allo studio e alla valorizzazione del corpo. La
scoperta della circolazione del sangue iatta dal medico inglese William
Harvey nel 1628 e la nascita della biologia spostavano infatti l'attenzione
dalla dimensione delleternità alla dimensione della vita, dall'anatomia
dell'occhio e del muscolo alla considerazione dello sguardo e delle
contrazioni, dalla statica alla dinamica, dallimmobilità al transeunte,
dall'esame del moto reversibile del pendolo a quello del tempo che imbianca
irreversibilmente i capelli, dalla sfera della provvidenza divina a quella
della pianificazione umana.
Tuttavia se Torino era città del barocco e delle suggestioni rappresentate
da quel movimento, il capoluogo piemontese era anche città di monumenti. Una
particolarità, questa, tutta ottocentesca, alla quale Mario Monge ha
dedicato molta attenzione “andando”
anche lui “per monumenti”,
come si può “andare per lapidi”.
O come si poteva, quando, quasi fossero le pagine di un libro sempre aperto
sulla propria storia, quelle vestigia venivano lettee osservate per capire
lo spirito del tempo. Il patrimonio dei monumenti torinesi è costituito da
oltre sessanta opere erette tra il 1808 e il 1937, una ogni due anni circa,
con una consistente presenza di statue equestri.
Oltre alle immagini già ricordate in cui Emanuele Filiberto domina piazza
San Carlo, il bronzo dedicato al principe Amedeo di Savoia, nel 1902, viene
osservato con un taglio molto dinamico sullo sfondo di un cielo azzurro
percorso da una nuvola bianchissima, nonché isolato dal grande basamento
dove l'autore. Davide Calandra, ha narrato la storia dei Savoia più
importanti.
Sempre in bronzo sono i due monumenti equestri che rappresentano la coppia
dei domatori di cavalli della mitologia greca, Castore e Polluce. collocati
nel punto in cui la cancellata di Pelagio Palagi divide piazza Castello dal
cortile esterno di Palazzo Reale. La tradizionale simmetria dei due semidei
è qui interrotta, forse per la prima volta; il primo, infatti, è colto in
una grigia e fredda giornata invernale e sotto uno spesso manto di neve,
mentre il secondo, investito da una calda luce artificiale, è visto in modo
che l'abbondanza della coda del cavallo sia messa in risalto insieme
all'eleganza della clamide.
Considerato il numero dei monumenti spuntati in poco più di un secolo nella
città raccolta intorno al suo centro, l'importanza costituita dai medesimi
in materia di arredo urbano, i temi e le personalità ritratti. gli artisti
impegnati, nonché gli investimenti richiesti, è probabile che l'argomento
monumenti abbia interessato l'opinione pubblica del tempo in un modo di cui
si è persa la memoria.
Nel volume del 1978 pubblicato dall'editore Martano, Italo Cremona commenta
questo aspetto, fonte, all'epoca, di discussioni anche molto concrete data
la competenza ancora diffusa in anatomia equina da parte di una popolazione
che non aveva perso la solidarietà tra uomo e quadrupede. Alla ricerca di
colmare il vuoto lasciato dalla perdita di questa e altre sensibilità della
stessa natura, Mario Monge ha prodotto una serie di immagini per trovare
altre giustificazioni, agendo di volta in volta sul registro della sorpresa
e della riscoperta di particolari inediti o dimenticati. Rivediamo cosi il
Faro della Vittoria sul colle della Maddalena, donato nel 1928 dall'allora
Cavalier Agnelli alla città di Torino su progetto di Edoardo Rubino,
nell'animo in cui la luce crepuscolare si incontra e si confonde con quella
artificiale diffusa dal fanale retto dalla fanciulla.
E rivediamo il Conte Verde, raffigurato di spalle, una scelta in linea con
il carattere misterioso del “più
intellettuale, enigmatico, distante monumento della città”
come ebbe a definirlo Italo Cremona in un'altra pagina dello stesso volume.
Egualmente di spalle e immerso in un'ombra solenne, intento a guardare la
piazza anche si apre di fronte, ecco il re “codino”
Vittorio Emanuele I, ripreso dall'alto della sua postazione di fronte alla
Gran Madre mentre, indossando il manto regale e impugnando l'asta del
potere, sembra meditare sulla consistenza e la durata del provvedimento che
dopo l'esilio e il Congresso di Vienna lo ha restituito alla sua città.
Infine il monumento a Vittorio Emanuele II, ripreso in una luce drammatica
che lascia senza risposta interrogativi formulati nel 1899, all'epoca
dell'edificazione del monumento stesso, interrogativi relativi alla
somiglianza o meno del monarca ritratto alloriginale e riguardanti il punto
esatto della città verso il quale fosse diretto il suo sguardo.
Molte sono le immagini di Monge che non ho commentato. Una caratteristica
unisce tuttavia molte di queste ultime a quelle di cui ho parlato: la
ricerca da parte del fotografo di evitare, se possibile. la presenza di
persone; fossero anche anonimi passanti. Ad accompagnare le vedute dei
monumenti, delle chiese e dei palazzi ci sono l'azzurro intenso del cielo,
il candore delle nuvole, il verde dei prati, la luce artificiale, gli alberi
fioriti, le bandiere multicolori, le tracce delle automobili, la neve, la
grafica, la segnaletica, gli zampilli delle fontane, i fuochi di artificio,
gli arredi natalizi, i personaggi dei presepi, le barche, l'acqua del fiume,
la luna. e i vogatori. C'è anche un piccione. E c’è soprattutto il silenzio.
Che è poi il silenzio di Monge, il quale avendo ritrovato parte della sua
Torino nel lontano Messico ce la restituisce ora inedita e anche un po’
messicana.
(oddone camerana / puntodincontro / traduzione allo spagnolo di gonzalo
hernández baptistal)
***
Iglesia de Santa Cristina (a la izquierda, C. de
Castellamonte, 1639)
e Iglesia de San Carlos (a la derecha, M. Valperga, 1619).
18 de enero de 2012 - Las imágenes que Mario
Monge tomó en Turín, no forman parte de un proyecto narrativo específico
dedicado por el autor desaparecido a su propia ciudad, sino que representan
el testimonio del estilo con el que Monge se relacionaba con la memoria.
Igual que sus retratos de
personas, la mayor parte de las vistas urbanas viene acompañada de detalles
que integran o comentan el sujeto tomado. Ya se trate de un azul insólito,
ya de un detalle igualmente inusual, que aúna o caracteriza el tema
principal, se advierte en todo momento la necesidad del autor de aligerar el
peso inminente de la memoria, poniendo al día la fuerza de gravedad de esta
última, quizá con una mención irónica o con una broma. El resultado nunca es
tanto fruto de la improvisación ni de una poética de ocasión, cuanto del
largo acecho del fotógrafo en la sistemática búsqueda de un detalle
alrededor del cual construir una imagen memorable. Y es aquí donde se nota
la escuela de retratista, que compone la imagen según un proyecto gráfico ya
delineado, cuando no la mejora con intervenciones posteriores, a la manera
de Wegee.
Monumento a Manuel Filiberto
de Saboya (Carlos Marocchetti, 1838).
En un intento, del todo
arbitrario, por establecer un orden en el trabajo de Monge, se pueden
señalar dos ciudades diferentes. Una, la Turín monumental del siglo XIX; la
otra, la Turín barroca y neoclásica, anterior, con sus palacios, iglesias y
plazas. Buena parte de los monumentos, especialmente los de bronce, tienen
cobijo en espacios dominados por fachadas barrocas. De este modo sucede que
dos hipotéticos visitantes de Turín, uno a la caza de monumentos, el otro
tras la pista de los edificios barrocos, después de encontrarse
repetidamente en sus diversos itinerarios, pueden terminar conociéndose en
la admiración conjunta de la visión que ésta les ofrece.
La Plaza de San Carlos queda
reflejada en imágenes en las que las fachadas contiguas de las iglesias de
San Carlos y de Santa Cristina han sido fotografiadas —la primera— en un
azul misterioso, come dos bolas doradas de un altar o, si se prefiere, corno
piezas de refinada ebanistería firmadas por el gran artesano Pietro Piffetti
y —la segunda— como los rostros admonitorios de los espíritus de la plaza,
absortos en la espera de que el salón (así se conoce esta plaza) de la
ciudad, después del paréntesis invasor de los automóviles, regrese a ser lo
que era. En cuanto a la estatua ecuestre de Manuel Filiberto de Saboya,
realizada por Marocchetti, por un lado queda transformada en un objeto
decorativo de escritorio por el efecto de la miniaturización fotográfica;
por el otro, se impone sobre el espacio circundante por la fuerza que tiene
el derecho de exclusividad que le confiere su fama.
Tenaz en su empeño de
confrontarse con un dèja vu de esta urbe, como podrían ser las vistas
del río Po y sus orillas, Monge dedica numerosas imágenes al mayor río de la
ciudad, cuyas aguas aparecen a veces como el liquido que vertiera un frasco
de tinta y otras veces como una cobija de lana embozada junto a la
tranquilidad de aquel fluir. En otras imágenes, el río vuelve a ser el lugar
del silencio, de los atardeceres y del frío invernal o, cuando no, un
espacio privilegiado para practicar deporte, índice de cuanto se conserva de
las actividades navieras del pasado.
Palacio Carignano (Guarino Guarini, 1685).
El Palacio Carignano y el
Palacio Academia de las Ciencias, además de ser contiguos —y ambos obra de
Guarini— ven su fama unida a la belleza del rojo ladrillo de Piamonte,
material que atesora en la fachada del Palacio Carignano la elegancia
austera de un relicario rural. De aquí la atención que Monge dedica a los
efectos producidos por la picadura de las aristas de la fachada. Gracias a
ella, el edificio se muestra diferente a los ojos del observador según la
luz que reciba.
Del Palacio Carignano se ha
dicho que, a ciertas horas del día, puede asumir el aspecto de una máscara
de cera. Del mismo modo, ahora, nos entrega una imagen en la que el
monumento de enfrente —de Vincenzo Gioberti— y el friso postizo que alberga
el edificio en honor a Víctor Manuel II, se funden en un mismo y lúgubre
color verdoso.
Todo cuanto ha rodeado este
lugar era austero y silencioso, tenía un sabor de sacristía, de barniz, de
chocolate recién hecho y de taller artesanal, más que de altos comandos y de
campo de batalla. La tarde del 13 de marzo de 1821, asomándose al balcón de
Palacio Carignano para leer, bajo la luz de una vela y sin micrófonos, la
proclama que anunciaba la Constitución a la población reunida en la plaza,
Carlo Alberto debió de encontrarse inmerso en una atmósfera íntima.
Turín ha
conservado un aspecto severo, no tanto por una grandiosidad ausente, cuanto
a causa de su tradición militar y de la geometría encuadrada en las calles
rectilíneas, que se prestan a los desfiles y reflejan una mentalidad
predispuesta al orden. Añadiendo que Turín tiene muchos monumentos, sin
llegar a ser monumental. Sus edificios de prestigio son los palacetes de las
familias nobles o de la alta burguesia y las iglesias.
Capilla de la Sábana Santa (Guarino Guarini,
1694).
La presencia de arquitectos de valor, como el padre teatino nacido en
Módena, Guarino Guarini, y Filippo Juvarra, nacido en Messina, ha propiciado
que las características del espíritu ciudadano estuvieran reflejadas en
metáforas arquitectónicas de signo aristocrático, llegando a ser a veces de
cariz exótico. Con esto me refiero, por ejemplo, a la forma de la cúpula
de San Lorenzo, que recuerda la geometría de ciertas mezquitas musulmanas,
mientras que la capilla donde se custodia la Sábana Santa, a causa de la
luz nocturna en la que Monge la capturó, recuerda la forma de un gorro
de sultán.
Seguramente no formaba parte de los pronósticos de Víctor Amedeo II,
ni del príncipe Eugenio —quienes decidieron su construcción tras la victoria
contra los franceses del 6 de septiembre de 1706— ni tampoco de los
propósitos del arquitecto Felipe Juvarra, encargado del proyecto, que la
Basílica de Superga se convirtiera en ese símbolo de hielo, de lejanía y de
soledad en el que se ha convertido hoy. Nació, pues, por el cumplimiento de un voto
formulado por ambos ilustres Saboya en el mismo punto donde hoy se alza, posición desde la que
habían observado el asedio de la ciudad. La solemne
construcción se ha ido cargando, con el tiempo, de referentes fúnebres por
haber hospedado en el subsuelo las tumbas de la casa Saboya y, además, por
haber sido el lugar en el que se verificó el accidente aéreo que terminó con
la vida de todos los integrantes del legendario equipo de futbol de Turín el
4 de mayo de 1949.
Basílica de Superga (Felipe Juvarra, 1731).
Esta sensación de frialdad que caracteriza la basílica
sugirió a Monge
varias imágenes. En ellas representó un solitario monólogo con la
luna y las nubes, o bien un perfil incierto y lejano, a causa de un
vidrio empañado por la lluvia que la separa aún más del observador.
Turín es también una ciudad de clamorosos abandonos. Aludo a los
de que, en su
grandiosidad, fueron responsables los Saboya, quienes —tras haber asignado
recursos ingentes a la construcción de suntuosos palacios reales—
perdieron después interés, indiferentes ante el descuido en el que estas
construcciones caerían. Ya restauradas y después de haber recobrado su anterior belleza,
algunas de ellas vuelven a aparecer en las imágenes de Monge entre flores, prados verdes, verjas reconstruidas e inesperados
trompe l'oeil.
La tradición de ciudad de las fiestas se remonta a Madama Reale y se ha
renovado en ocasión de la iniciativa que en el periodo navideño se llama
Luces de artista. En ese ámbito vemos la estación ferroviaria de Porta Nuova
transformada en un palacio oriental de fábula, poblado de figuras que
dispuso Emanuele Luzzati entorno al pesebre.
Además de una ciudad barroca,
Turín es una ciudad neoclásica. En la imagen que dedica al Templo de la Gran
Madre de Dios, muy oportunamente recogido por Monge sin alejarlo de los
edificios que forman parte del mismo proyecto, se evidencia su particular
atmosfera álgida e imperturbable, proyectada por el arquitecto Bonsignore.
Habiendo fotografiado el conjunto en un instante sin personas, Monge
devuelve el templo a los silencios paganos de quien así lo había concebido.
Y
así llegamos a Nietzsche. En una pagina dedicada a Monge en ocasión de una
exposición sobre su trabajo, Gianni Vattimo observó como la fijeza de la
imagen fotográfica de algunos aspectos arquitectónicos de la ciudad,
abiertos bajo las cercanas montanas, se prestara a interpretar la
sensibilidad del filósofo alemán, tan interesado en aferrar la síntesis
entre lo severo y lo ligero, prueba de la unión entre eternidad e instante,
cuya relación está presente en la conciencia de aquel momento concreto.
La
observación es más oportuna aún si se considera que el
espectáculo de vitalidad que nos ofrece el movimiento barroco no se había
apagado, respondiendo una vez más al ruido de fondo que produjeron los
descubrimientos científicos de la época, dirigidos al estudio y a la
valorización del cuerpo. El descubrimiento de la circulación de la sangre —realizado por el doctor inglés William Harvey en
1628— y el nacimiento de
la biología fueron restando la atención de la dimensión de eternidad a favor
de la dimensión de la vida, desde la anatomía del ojo o del músculo hasta la
consideración de la mirada y de las contracciones, desde lo estático hasta lo
dinámico, desde lo inmutable hasta lo pasajero, desde el examen del movimiento
reversible del péndulo hasta el momento en el que inevitablemente encanece
el cabello, de la esfera de la providencia divina hasta la planificación
humana.
Sin embargo, si Turín era la ciudad del barroco y de las sugestiones
representadas a partir de este movimiento, la capital piamontesa también es
una ciudad de monumentos. Un detalle, muy característico del siglo XIX, al que Mario Monge
dedicó mucha atención, “yendo” —el también— “por monumentos”, como quien
va en busca de lápidas. O como si fueran quizá las páginas de un libro
abierto sobre su misma historia, aquellas huellas eran entonces leídas y
observadas para entender al espíritu del tiempo. El patrimonio de los
monumentos turineses está constituido por más de sesenta obras realizadas
entre 1808 y 1937, una cada dos años, en promedio, con una consistente
presencia de estatuas ecuestres.
Además de las imágenes ya recordadas, en las que Manuel Filiberto domina
la Plaza de San Carlos, nuestro fotógrafo observa el bronce dedicado al
príncipe Amadeo de Saboya, de 1902, con un corte muy dinámico sobre un
fondo de cielo azul claro, por el que cruza cándidamente una nube, asimismo
aislado del zócalo donde el autor, Davide Calandra, narró la historia de los
Saboya más importantes.
También en bronce, encontrarnos dos monumentos ecuestres que representan la
pareja de los dos domadores de caballos de la mitología griega, Cástor y
Pólux, levantados en el punto en el que la reja de Pelagio Palagi divide la
céntrica Plaza del Castillo del patio exterior del Palacio Real. La
tradicional simetría de ambos semidioses aquí se interrumpe, quizá por
primera vez. El primer domador fue capturado en una mañana fría y gris
de invierno, bajo un denso manto de nieve. El segundo, golpeado por una
cálida luz artificial, se ve resaltado por la abundante cola del
caballo junto a la elegancia de la clámide.
Considerando el número de monumentos que despuntan en poco más de un siglo
—recogidos entorno al centro de la ciudad—, la importancia que constituyen
en materia de decorado urbano, los temas y las personalidades
retratadas, los artistas comprometidos, así como las inversiones requeridas,
es probable que el argumento de los monumentos también habría despertado el
interés de
la opinión publica de aquel tiempo en un modo en el que ya se ha perdido la
memoria.
En una publicación de 1978 del editor Martano, ltalo
Cremona comenta este aspecto, origen —en aquella época— de discusiones muy concretas, dada
la competencia todavía difusa en anatomía equina por parte de la población,
que no había perdido la solidariedad entre el nombre y el cuadrúpedo.
En un intento para colmar el vacío que dejaron la pérdida de
ésta y la de
otras sensibilidades de la misma naturaleza, Mario Monge produjo una
serie de imágenes en las que cabe encontrar otra justificación, moviéndose
en cada una de sus intervenciones dentro del registro de la sorpresa y del
descubrimiento de detalles inéditos o ya olvidados.
Bajo esta luz, volvemos a ver el Faro de la Victoria en la colina de la
Magdalena, que fue donado en 1928 por el entonces Cavalier Agnelli a la
ciudad de Turín, bajo proyecto específico de Eduardo Rubino, en un momento
en el que la intensidad lumínica del crepúsculo es muy peculiar y se
confunde con la luz artificial que emana del quinqué que sujeta la victoria
alada.
Y volvemos a ver al Conde Verde, de espaldas, una elección que va en línea
con el carácter misterioso del “monumento más intelectual, enigmático y
distante de la ciudad”, como fue
definido por Italo Cremona en otra página de
la obra ya citada.
También de espaldas, e inmerso en una sombra solemne, abstraído
al mirar
la plaza delante de él, tenemos al rey “reaccionario” Víctor
Manuel I, fotografiado desde lo alto de su trono, frente a la Gran Madre,
mientras que, llevando el manto real y empuñando el báculo del poder, parece
meditar sobre la consistencia y la duración de la resolución que, tras el
exilio y el Congreso de Viena, le permitió volver a su ciudad.
Y, por último, el monumento a Víctor Manuel II, fotografiado bajo una luz
dramática que deja sin respuesta las preguntas formuladas en 1899, en la
época de su edificación, relativas al
grado de parecido del retrato con el monarca y hacía qué punto exacto de la
ciudad dirigía su mirada.
Muchas son las imágenes de Monge acerca de las cuales no
he hablado. Sin embargo, una característica une muchas de ellas a aquellas que ya he comentado:
la búsqueda, por parte del fotógrafo, de evitar, en la medida de lo posible,
la presencia de personas; aunque fueran ellos anónimos transeúntes.
Acompañando las vistas de los monumentos, de las iglesias y de los
palacios, encontramos un azul intenso del cielo, el candor de las nubes, el
verde de los jardines, la luz artificial, los árboles floreados, los blasones
multicolores, el rastro de los automóviles, la nieve, el grafismo, los
surtidores de las fuentes, los fuegos artificiales, la decoración navideña,
el agua del río, la luna. Hay incluso una paloma. Pero, sobre todo, reina el
silencio. Silencio que, además, es el silencio de Monge, quien, habiendo
redescubierto parte de su Turín en el lejano México, nos la devuelve ahora
inédita, e incluso un poco mexicana.
(oddone camerana / puntodincontro / traducción al español de gonzalo
hernández baptistal) |
|
|
|
|
|
|
|