Fossili di crinoidee del periodo giurassico.

 

«Se le scimmie sapessero annoiarsi, potrebbero diventare uomini»

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832)

 

16 marzo 2013 - Ormai è un fatto scientificamente accertato: uomini e scimmie, per lontanissima ascendenza, sono fra loro dei … parenti prossimi.

Hanno avuto (questione, più o meno, di una qualche decina di milioni di anni fa) un antenato comune. Poi, ognuno ha proseguito per la sua strada [1].

A raccontarci come sono andate le cose, sono dei singolari reperti: “pezzi anatomici” di nostri preistorici predecessori, completamente pietrificati!

I paleontologi (= “studiosi della vita primitiva”, dal greco παλαiός, palaiòs = “antico”, ὤν, ὄντος, òn, òntos = “ciò che è” e λόγος, lògos = nel senso di “studio”) li hanno chiamati “fossili”, un termine che deriva dalla parola latina fossilia con cui si indicava qualsiasi cosa venisse estratta dalle terra mediante scavo.

Lo studio dei fossili ci ha chiarito molte congetture circa la nostra evoluzione di esseri umani raziocinanti. Ci ha fornito, per così dire, una serie di “reliquie di pietra", più o meno integre, riproducenti le fattezze di come eravamo e come ci siamo trasformati con il passare del tempo. Purtroppo questi “ritratti in pietra” non ci sono pervenuti in ordine cronologico. È quindi un compito assai impegnativo dei paleontologi il disporli nella sequenza temporale corretta. Operazione non certamente facile, anche perché i fossili di cui disponiamo sono veramente pochini.

La fossilizzazione, infatti, è un evento la cui realizzazione è altamente difficile per non dire improbabile. Si può verificare soltanto in condizioni molto particolari. Solo una specie su 5000 vissute nel passato ha potuto subire questo processo. Ce lo insegna la “tafonomia”, la scienza che studia le modalità della formazione di questi antichissimi reperti (anche questa parola, deriva dal greco: tafos, tàfos = tomba, sepoltura e nomos, nòmos = legge, regola). Semplificando all’estremo, si può dire che resti di animali e vegetali possono fossilizzare solo nel caso in cui sia stato evitato il loro disfacimento naturale per l’azione combinata di aria, acqua e microrganismi. Appena un organismo muore, infatti, questo viene aggredito da agenti biologici (necrofagi e batteri) che provocano la putrefazione delle parti molli (pelle, organi interni, ecc.). In un secondo momento, intervengono gli agenti chimici (acidi) e fisici (venti e acque) che distruggono le parti dure (ossa, gusci ecc.). Tuttavia se un organismo viene rapidamente ricoperto da un sedimento sottile (sabbia, fango ecc.), prima che gli agenti distruttori possano agire, le parti dure possono conservarsi integre (o quasi) e quindi fossilizzare. Il processo di fossilizzazione più comune è quello di pietrificazione o mineralizzazione. Avviene per azione dell’acqua che percola nel terreno. In quest’acqua sono sciolte delle sostanze inorganiche (minerali a base di silicati, carbonati, fosfati ecc.) che, nel corso di milioni di anni, vanno a sostituire le molecole costituenti il corpo dell’organismo (sostanze organiche, appunto). E’ come un treno su cui man mano salgono dei passeggeri, mentre altri scendono: alla fine del viaggio tutti i passeggeri sono stati sostituiti, anche se treno è sempre lo stesso.

I fossili hanno incuriosito gli uomini per generazioni. Gli antichi greci ritenevano che fossero fenomeni naturali e che si formassero allo stesso modo delle stalattiti e dei cristalli. Martin Lutero (1483-1546) era convinto che i fossili ritrovati sulla cima delle montagne, fossero la testimonianza del Diluvio Universale. Chi la pensò correttamente (tanto per cambiare), fu Leonardo da Vinci (1452-1519), il quale, nei suoi taccuini, annotava di essere persuaso che i fossili fossero i resti pietrificati di organismi estinti e vissuti nella notte dei tempi.

La vera natura dei fossili divenne gradualmente più chiara nel corso del XVIII e XIX secolo.

Nei primi anni del '900, come già accennato, i reperti a disposizione degli studiosi erano piuttosto scarsi. Erano stati rinvenuti soltanto alcune parti dello scheletro dei cosiddetti “uomini” di Neanderthal e Cro-Magnon. In ogni modo, tutti i paleontologi dell’epoca si dannavano l’anima nell’affannosa ricerca di un fossile che potesse rappresentare l’anello di congiunzione tra gli umani e le cosiddette scimmie antropomorfe, cioè “dall’aspetto simile all’uomo”, chiamate anche “ominidi”. Nel corso dei vari dibattiti evoluzionistici, per indicare la mancanza di questo tipo di rinvenimento, venne coniata la locuzione «anello mancante» (in inglese missing link). Qualcuno gli aveva anche dato un nome, a questo vagheggiato anello mancante: pitecantropo, che appunto vuol dire “uomo-scimmia” (dal greco pitecos, pitécos = scimmia, e antropos, àntropos, uomo). Ad un certo momento, nel 1891, un medico militare olandese, Eugenio Dubois, pen­sò di averlo trovato in fossili da lui rinvenuti a Giava. Lo chiamò Pithecanthropus erectus. In effetti era un reperto le cui caratteristiche morfologiche sembravano a metà strada tra quello degli ominidi e quello degli uomini: aveva la calotta cranica bassa, la fronte sfuggente e un volume encefalico di circa un litro. La scoperta però non suscitò grande fermento fra i vari paleontologi, anzi originò dubbi e contestazioni.

Fino a quando, nel 1912, le spoglie di pietra del pitecantropo vennero alla luce dove meno si sarebbe pensato di rinvenirle: a Piltdown, nel Sussex, in Inghilterra! Il fossile scoperto si componeva di due parti: un cranio (detto calvario) estremamente moderno ed una mandibola arcaica, scimmiesca. Era un rinvenimento perfettamente in linea con la teoria allora prevalente fra gli studiosi inglesi (e non) secondo i quali l'evoluzione era iniziata a partire dallo sviluppo del cervello. Pertanto, venne ufficialmente istituita la nuova specie Homo piltdownensis. E, di conseguenza, fu rivalutato anche iI Pithecanthropus di Giava (oggi classificato come Homo erectus).
 

Il quadro dipinto da John Cooke nel 1915 per commemorare la scoperta dell'uomo di Piltdown.
Dietro (da sinistra): F. O. Barlow, Elliot Smith, Charles Dawson, Arthur Smith Woodward.
Davanti: A. S. Underwood, Arthur Keith, William Plane Pycraft e Sir Ray Lankester.
 

La storia dell’Homo piltdownensis ebbe inizio il 18 dicembre 1912.

Durante una riunione della prestigiosa Geological Society of London, la più antica società di geologia del mondo, Charles Dawson, un avvocato con il pallino dell’archeologia, presentò alcuni fossili straordinari: un cranio, estremamente moderno, ed una mandibola arcaica, scimmiesca.

Secondo Dawson, avrebbero potuto appartenere a una nuova specie di ominidi, se non addirittura a quella “mancante”, prova provata del momento di disgiunzione evoluzionistica tra l’uomo e la scimmia. A detta dello stesso Dawson, i fossili gli erano stati consegnati, 4 anni prima, da un operaio della cava di Piltdown, che, nel maneggiarli, li aveva in parte rovinati. La stampa mondiale, sembrò impazzire: non solo era stato trovato il vagheggiato missing link, ma questo si rifaceva ad un essere certamente un po’ primitivo, ma già con un cervello raziocinante e, soprattutto, …. inglese! In successive visite alla cava del rinvenimento, in compagnia di Arthur Smith Woodward, insigne geologo al British Museum, Dawson ritrovò altri frammenti del cranio. Secondo il motivato parere di Smith Woodward, presente al ritrovamento, si potevano ricondurre, senza dubbio alcuno, alla configurazione strutturale anatomica di un pitecantropo vissuto circa 500.000 anni fa.

Ma, a qualche altro scienziato (tra cui il professore di anatomia britannico David Waterson, il paleontologo francese Marcellin Boule e lo zoologo americano Gerrit Smith Miller) la cosa non parve più di tanto chiara. Anzi, cominciarono a storcersi, pubblicamente, il naso. Com’era possibile che la mandibola di una scimmia del Pleistocene fosse praticamente indistinguibile da quella di una scimmia attuale?

Forse non era azzardata l’ipotesi che i “pezzi” dell’Homo piltdownensis appartenessero in realtà a specie di creature diverse. In questo caso, allora, l’uomo di Piltdown era un falso, cioè un “collage” di pezzi di animali differenti! Ma, ammesso che fosse un reperto contraffatto, cos’era in realtà e chi (e come) aveva perpetrato una truffa così sfrontata?

Per avere una risposta valida a questa questione bisognò attendere sino al 1953. Quarantun anni per smascherare un’enorme, clamoroso raggiro: non solo le teorie sull’uomo di Piltdown erano sballate, ma i reperti erano completamente falsi. Veri e propri artefatti. Grazie alla datazione al radiocarbonio e al test al fluoruro, si chiarì che il cranio non era vecchio di 500.000 anni, ma di 2000 anni! Quanto alla mascella, essa non aveva che qualche centinaio di anni. In seguito ad un accurato esame microscopico si scoprì che i denti erano stati accuratamente limati allo scopo che mostrassero un logoramento simile a quello causato dalla dieta umana. Il tutto era stato tinto con bicromato di potassio e sali di ferro per simularne l’antichità e, quindi, era stato artatamente interrato in vista della clamorosa “scoperta”.

Fu il settimanale Time a pubblicare per primo le prove inequivocabili del falso. Il fossile di Dawson era un “puzzle": il teschio apparteneva a un uomo di epoca medievale, la mandibola aveva 500 anni ed era quella di un orangutango (= dal malese “orang”, uomo e “hutàn”, bosco). Infine alcuni denti appartenevano a uno scimpanzé.

La comunità scientifica, figurarsi!, accusò assai malamente il colpo: era stata beffata per anni! Ma dovette digerire la pillola amara: 6 gentleman inglesi, che i giornali presero a chiamare come la «Piltdown Gang», avevano preso in giro tutti i vari professoroni (meglio, quasi tutti). Oltre allo stesso Dawson, e al suo mentore Woodward, facevano parte della compagine truffaldina, il gesuita Pierre Teilhard de Chardin (filosofo e paleontologo), Arthur Keith (antropologo), Martin Hinton (zoologo), Horace de Vere (un eccentrico burlone e poeta) e, addirittura, Arthur Conan Doyle, lo scrittore padre di Sherlock Holmes.

Non si sa esattamente cosa spinse questi Signori ad architettare un piano così ingegnoso, con l’intento di riportare in vita la scimmia più umana che si era mai vista.

Quel che è certo è che seppero effettivamente unire l’utile (notorietà) al dilettevole (burla). That’s british humour! Il tutto in perfetto spirito inglese!

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[1] Secondo recenti studi genetici gli antenati degli odierni uomini e degli scimpanzé si separarono all’incirca dai 4 ai 6 milioni di anni fa, mentre gli antenati dei gorilla circa 7 milioni d’anni fa. Quelli degli orangutan si staccarono circa 12-16 milioni di anni fa.

 

(claudio bosio / traduzione allo spagnolo di joaquín ladrón de guevara)

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Fósiles de crinoideos del periodo jurásico.

 

«Si los monos supieran aburrirse, podrían convertirse en hombres».

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832)

 

16 de marzo de 2013 - Ya es un hecho científicamente comprobado: los hombres y los monos son, por una lejanísima ascendencia… parientes cercanos.

Han tenido (hace, más o menos, una decena de millones de años) un antepasado en común. Después cada uno tomó su propio camino [1]

Para narrar como sucedieron las cosas, existen ciertos hallazgos singulares: “piezas anatómicas”, pertenecientes a nuestros predecesores prehistóricos, ¡completamente petrificadas!

Los paleontólogos (=”estudiosos de la vida primitiva” del griego παλαiός., palaiòs = antiguo, ὄν, «οντο» onto = ser, «-λογία» -logía = tratado, estudio, ciencia) los han llamado “fósiles”, un termino que deriva de la palabra latina “fossilia”, término con el que se denominaba cualquier cosa extraída de la tierra por medio de una excavación.

El estudio de los fósiles ha aclarado muchas conjeturas acerca de nuestra evolución como seres humanos racionales. Nos ha proporcionado, por decirlo de alguna manera, una serie de “reliquias de piedra” más o menos íntegras, que reproducen la forma en la que éramos y como nos hemos transformado con el paso del tiempo. Desafortunadamente estos “retratos en piedra” no fueron descubiertos en orden cronológico, lo que dio origen a la ardua tarea de los paleontólogos para colocarlos en una secuencia correcta. Operación nada fácil, sobre todo porque los fósiles de los cuales disponemos son realmente pocos.

La fosilización, de hecho, es un evento cuya realización es altamente difícil por no decir improbable. Se puede dar sólo en condiciones muy particulares. Únicamente una especie de cada 5000 existentes en el pasado ha podido experimentar este proceso. Esto nos lo enseña la “tafonomía”, la ciencia que estudia las modalidades de la formación de estos antiquísimos hallazgos (también esta palabra deriva del griego, (τάφος» taphos, tumba, y «νόμος» nomos, ley, regla). Simplificando al extremo, puede decirse que los restos de animales y vegetales alcanzarían a fosilizarse solo en el caso en el que se haya evitado su descomposición natural por la acción combinada del aire, el agua y los microorganismos. De hecho, apenas muere un organismo, es atacado por agentes biológicos (necrófagos y bacterias) que provocan la putrefacción de las partes blandas (piel, órganos internos, etc.). Posteriormente, intervienen los agentes químicos (ácidos) y físicos (viento y agua) que destruyen las partes duras (huesos, caparazones, etc.). No obstante, si un organismo es cubierto rápidamente por un delgado sedimento (arena, fango, etc.), antes de que los agentes destructores puedan actuar, la partes duras pueden conservarse íntegras (o casi) y posteriormente fosilizarse. El proceso de fosilización más común es el de petrificación o mineralización. Ocurre por la acción del agua que se filtra en el terreno. En el agua se encuentran las sustancias inorgánicas (minerales a base de silicato, carbonato, fosfato, etc.), que, en el transcurso de millones de años, sustituyen gradualmente a las moléculas que constituyen el cuerpo del organismo (nota: sustancias orgánicas). Como un tren del cual poco a poco suben pasajeros mientras que otros bajan: al final del viaje todos los pasajeros han sido sustituidos, si bien el tren sigue siendo el mismo.

Los fósiles han intrigado a los hombres por generaciones. Los antiguos griegos los consideraban fenómenos naturales que se formaban del mismo modo que las estalactitas y los cristales. Martín Lutero (1483-1546) estaba convencido que los fósiles encontrados en la cima de las montañas eran testimonio del Diluvio Universal. Quien los analizó correctamente fue, para variar, Leonardo da Vinci (1452-1519) quien en sus apuntes registraba estar convencido que los fósiles eran los restos petrificados de organismos extintos que vivieron en tiempos remotos.

La verdadera naturaleza de los fósiles se hace mas clara entre los siglos XVIII y XIX.

En los primeros años del 900, como ya fue indicado previamente, los restos a disposición de los estudiosos eran más bien escasos. Habían sido recuperadas algunas partes del esqueleto de los llamados “hombres” de Neanderthal y Cro-Magnon. De cualquier modo, todos los paleontólogos se partían el alma en la afanosa búsqueda de un fósil que pudiera representar el eslabón perdido entre los humanos y los denominados simios antropomorfos, es decir, “de aspecto similar al hombre”, también llamados “homínidos”. En el transcurso de varios debates evolucionistas, para indicar la ausencia de este tipo de hallazgos, es acuñado el término “eslabón perdido” (en inglés Missing Link). Alguien incluso le había dado un nombre a este tan buscado eslabón perdido: Pithecantropus, que quiere decir, precisamente, “hombre mono”, (del griego πίθηκος, pitekos = simio, mono, y άνθρωπος, antropos= hombre). En algún punto, en 1891, un médico militar holandés, Eugenio Dubois, creyó haberlo descubierto entre unos fósiles hallados en Java. Lo llamó Pithecantropus Erectus. En efecto, era un hallazgo cuyas características morfológicas parecían encontrarse justo en el punto medio entre los homínidos y los humanos: tenía el casquete craneal bajo, la frente achatada y un volumen encefálico de aproximadamente un litro. Pero el descubrimiento, en lugar de generar emoción entre los paleontólogos, generó dudas y críticas.

Hasta que, en 1912, los restos petrificados del pithecantropus salieron a la luz en el lugar menos pensado: en Pildown, Sussex, Inglaterra. El fósil descubierto se componía de dos partes: un cráneo (calavera) extremadamente moderno, pero con una mandíbula arcaica, simiesca. Era un hallazgo perfectamente alineado con la teoría entonces predominante entre los científicos ingleses (y de otras nacionalidades) según los cuales la evolución iniciaba con el desarrollo del cerebro. Por lo tanto, fue instituida oficialmente la nueva especie “Hombre de Piltdown” y, como consecuencia, fue revalorizado el pithecantropus de Java (hoy clasificado como Homo erectus).

 

El cuadro pintado por John Cooke en 1915 para conmemorar el descubrimiento del hombre de Piltdown.
Atrás (de izquierda a derecha): F. O. Barlow, Elliot Smith, Charles Dawson, Arthur Smith Woodward.
Adelante: A. S. Underwood, Arthur Keith, William Plane Pycraft y Sir Ray Lankester.
 

La historia del Hombre de Piltdown inició el 18 de diciembre de 1912.

Durante una reunión de la prestigiosa Geological Society of London, la sociedad más antigua de geología en el mundo, Charles Dawson, un abogado con inquietudes arqueológicas, presentó algunos fósiles extraordinarios: un cráneo, extremadamente moderno, y una mandíbula arcaica, simiesca.

Según Dawson, podrían haber pertenecido a una nueva especie de homínido, o incluso a aquella “faltante”, prueba confirmada del momento de separación evolutiva entre el hombre y el mono.

Dicho por el mismo Dawson, los fósiles le habían sido entregados cuatro años antes, por un obrero de las canteras de Piltdown quien, al manejarlos, los había dañado parcialmente.

La prensa internacional pareció enloquecer: nos solo había sido encontrado el anhelado eslabón perdido, sino además consistía en un ser, sin duda, bastante primitivo, pero ya con un cerebro racional y, sobre todo… ¡ingles! En visitas posteriores a la cantera del descubrimiento, en compañía de Arthur Smith Howard, insigne geólogo del Museo Británico, Dawson encontró otros fragmentos del cráneo. Según la opinión de Smith Howard, presente durante el hallazgo, se podrían sin duda ligar a la configuración estructural anatómica de un pithecantropus de hace aproximadamente unos 500.000 años.

Sin embargo, para uno que otro experto (entre ellos el profesor británico de anatomía David Waterson, el paleontólogo francés Marcellin Boule y el zoólogo americano Gerrit Smith Miller) el asunto no parecía tan claro. Por el contrario, comenzaron a fruncir el ceño públicamente. ¿Cómo era posible que la mandíbula de un simio del pleistoceno fuera prácticamente indistinguible de la de un simio actual?

Tal vez no era una hipótesis arriesgada creer que las “partes” del Hombre de Piltdown pertenecieran en realidad a una especie de criatura diferente. En este caso, entonces, el Hombre de Piltdown era una falsificación, o sea ¡un “collage” de piezas de animales distintos! Pero, admitiendo que fuese un hallazgo falsificado, ¿que era en realidad y quien (y como) había perpetrado una treta tan desvergonzada?

Para encontrar una respuesta válida a esta pregunta tuvimos que esperar hasta 1953. Cuarenta y un años para desenmascarar una enorme y estrepitosa trampa: no solo las teorías sobre el Hombre de Piltdown eran disparatadas, los descubrimientos eran completamente falsos. Artificios genuinos y precisos. Gracias al fechado del radiocarbono y a las pruebas de fluoruro, se aclaró que el cráneo no era de 500.000 años, sino de ¡2000 años! En cuanto a la mandíbula, no contaba con más de un centenar de años. A partir de un esmerado examen microscópico se descubrió que los dientes habían sido cuidadosamente limados con el fin de que mostraran un desgaste similar al causado por la alimentación humana. Los restos habían sido completamente teñidos con bicromato de potasio y sales de fierro para simular la antigüedad y, fueron enterrados arteramente para aparentar el estruendoso “hallazgo”.

Fue el semanario “Time” el primero en publicar las pruebas inequívocas de la estafa. El fósil de Dawson era un “rompecabezas”: El cráneo pertenecía a un hombre de la época medieval, la mandíbula tenía 500 años y pertenecía a un orangután (del malayo “orang”, hombre y ”hutan”, bosque). Y, por último, los dientes eran los de un chimpancé.

La comunidad científica, ¡Imagínense!, denunció desacertadamente el golpe: ¡había sido burlada por años! Pero debieron digerir la amarga píldora: seis caballeros ingleses, a quienes los diarios comenzaron a llamar “La Pandilla Piltdown”, le habían tomado el pelo a varios grandes profesores (más bien, a casi todos). Además del mismo Dawson, y su mentor Woodward, tomaron parte en la fraudulenta compañía el jesuita Pierre Teilhard de Chardin (filósofo y paleontólogo), Arthur Keith (antropólogo), Martin Hinton (zoólogo), Horace de Vere (excéntrico bromista y poeta), y hasta Arthur Conan Doyle, el escritor padre de Sherlock Holmes.

No se sabe exactamente que impulso a estos señores a diseñar un plan tan ingenioso, con la finalidad de dar vida al mono más humano que se hubiera visto jamás.

Lo cierto es que supieron de manera efectiva unir lo útil (notoriedad) a lo divertido (burla). That`s british humour! Todo en un perfecto espíritu inglés.

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[1] De acuerdo con recientes estudios genéticos acerca de los ancestros de los actuales seres humanos y de los chimpancés, éstos se separaron aproximadamente hace 4-6 millones de años, mientras que en el caso ​​de los gorilas, sucedió hace unos 7 millones de años. Los del orangután se dividieron hace unos 12-16 milliones de años..

 

(claudio bosio / traducción al español de joaquín ladrón de guevara)