Il computer, un congegno
che (quasi) ragiona

Di Claudio Bosio.
Seconda parte.

 

2 settembre 2010 . - Sotto la pressione di un dito, ogni tasto che affonda chiude un circuito nella tastiera: un microprocessore (inserito sempre nella tastiera) confronta la posizione del tasto premuto con una cartina di caratteri impressa nella sua memoria Rom, decifra il carattere e lo invia alla Cpu. Un’ondata di elettroni si mette così in viaggio nei cavi elettrici e raggiunge in pochi istanti la scheda madre, quindi il microprocessore entrando così nel suo labirinto di silicio, fatto di stretti cunicoli e componenti miniaturizzati. Tanto per averne un’idea (anche se veramente pallida) un microprocessore come il Pentium 4, è composto da 42 milioni di minuscoli interruttori detti transistor, larghi appena 180 nanometri, ossia 500 volte più sottili di un capello, tutti scavati in un unico blocco di silicio largo più o meno 1,2 cm2.

Sono numeri che hanno dell’incredibile: 42 milioni di transistor collegati tra loro e collegati anche ad altri elementi da altri milioni e milioni di connessioni metalliche... Come mai farà il segnale elettrico, generato dalla pressione di un dito su un tasto, a non perdersi in questo deda­lo di connessioni e arrivare a digitare una singola, piccola, lettera sullo schermo?

Bene, succede pressappoco questo: 

All'arrivo del segnale elettrico, l'intero il circuito, pian piano, si riaggiusta e avvia una serie di cambiamenti che sembrano … inumani. In realtà sono soltanto le leggi fisiche dei circuiti stessi che, meccanicamente, fanno avvenire tutti i cambiamenti in gioco. I circuiti all'interno di un microprocessore si possono pa­ragonare a una rete di canali in cui scorre l'acqua. Nei circuiti elettronici, al posto dell'acqua, scorre la corrente elettrica, che si muove come una cascata invisibile dalle zone ad alta energia potenziale verso le zone a bassa energia.

In ogni istante, un microprocessore o un qualsiasi circuito integrato si trova in una certa configurazione. Schematizzando, ogni elemento del circuito si trova in uno stato di potenziale definibile 0 (con una tensione di 0 volt) o in uno stato definibile 1 (con una tensione, per esempio, di 1,5 volt). È lo stesso di una rete idrica di canali nei quali l'acqua può scorrere solo a livello del suolo (definito come 0) o, per esempio, 1,5 m più in al­to (definito come 1).

I transistor presenti nel circuito sono elementi che si com­portano più o meno come valvole. Sono composti da un gate di controllo, da un ingresso e un'uscita. Se il gaite si trova nello stato 0, allora la valvola è chiusa e non c'è passaggio tra ingresso e uscita. Se invece il gate si trova nello stato 1, allora il passaggio c'è. Tornando all'esempio della rete di canali, possiamo considerare un transistor un elemento con tre ramificazioni, di cui una è di controllo. Se il livello dell'acqua nel gate è basso, la valvola è chiusa e le altre due ramificazioni sono scollegate: possono avere anche livelli diversi di acqua. Se, invece, il livello dall'acqua nel fiate è alto, allora il passaggio si apre e le altre due ramificazioni sono collegate: devono raggiungere lo stesso livello.

Se queste valvole dette transistor non ci fossero, un circuito, per quanto complesso, non sarebbe in grado di compiere alcuna elaborazione logica o matematica. Combinando tra loro pochi transistor, invece, si possono realizzare le funzioni logiche elementari e, da queste, tutte le altre.

La logica che usano tutti i PC è detta logica binaria, inventata dal matematico inglese George Boole nel 1847, e infatti è detta anche logica «booleana».

Si basa sui valori 0 e 1, che corrispondono rispettivamente a «falso» e «vero», e sulle operazioni lo­giche come not, and e or.

La più semplice operazione logica è la negazione (not). Se diciamo, ad esempio, «Sta piovendo». Se l'affermazione è vera (1), allora la sua negazione: «Non sta piovendo», è falsa (0). E viceversa. L'operazione not tra­sforma, insomma, 0 in 1 e 1 in 0.

L'operazione and è un po' più complicata, perché ha due ingressi. Se prendiamo come ingressi le frasi: «Sta piovendo» e: «C'è il sole», l'operazione and produce la frase: «Sta nevicando e c'è il sole», che è vera se e solo nel caso siano vere entrambe le affermazioni di partenza. In termini matematici, una porta logica and produce un 1 se e solo se i due ingressi sono 1; altrimenti produce 0.

Una porta or, infine, produce 1 se almeno uno dei due ingressi è 1, altrimenti dà 0.

È palese che nell’esempio in questione, ci siamo limitati a operazioni matema­tiche a due sole cifre, 0 e 1, cioè a quelli che in matematica sono chiamati numeri binari. Questa restrizione, però, non è affatto limitativa, perché tutti i numeri si possono scrivere in forma binaria, purché si ricorra a un numero maggiore di cifre.

A un 2 del nostro sistema decimale, per esempio, cor­risponde 10 in codice binario (da leggersi come «uno zero» e non come «dieci»), a 4 corrisponde 100 (uno zero zero), a 13 corrisponde 1101 (uno uno zero uno). E così via.

Non solo: e­sistono anche convenzioni per rappresentare le lettere dell'alfabeto in numeri binari. Alla fine, con i numeri binari si possono fare tutte le operazioni matematiche e si possono perfino scrivere parole, codificare la musica, riprodurre immagini. Per quel che riguarda le immagini, per esempio, le sequenze di 1 e 0 possono identificare la posizione di un pixel ([4]) sullo schermo e il suo colore.

Dunque, al premere determinati tasti sulla tastiera, gli impulsi elettrici che simboleggiano i bit 0 e 1 partono dalla tastiera e raggiungono la Cpu. Qui trovano una rete di transistor con una certa configurazione e la cambiano, attivando una serie di altri cambiamen­ti che corrispondono alle operazioni logiche e hanno come risultato finale un'ultima configurazione e un segnale in uscita che raggiunge lo schermo e imprime sui cristalli liquidi il carattere corrispondente al tasto premuto.

I cambiamenti non sono mai continui, in un microprocessore, cioè non avvengono con la stessa continuità che caratterizza, ad esempio, il flusso di un fiume o i meccanismi biologici. Si verificano a scatti, uno alla volta, come se fossero fotogrammi di un film. Il PC, infatti, possiede un orologio interno, il dock, una sorta di metronomo che scandisce il susseguirsi delle operazioni e determina perciò anche la velocità con la quale il PC svolge le sue operazioni. Ogni volta che deve fare un calcolo, il PC lo suddivide in operazioni matematiche elementari e le svolge una alla volta, una per ogni ciclo del dock. Fino al risultato finale.

Per eseguire compiti così complessi, il microprocessore deve essere opportunamente istruito. E queste istruzioni sono fornite da programmi come il sistema operativo e il programma di scrittura Word. Ogni volta che si preme un tasto, il segnale che arriva al microprocessore diventa un dato di partenza per il sistema operativo. Questo lo riceve e determina il programma al quale indirizzarlo, in questo caso Word. Word, a sua volta, determina il formato dei dati in arrivo e li registra tem­poraneamente, sempre tramite il sistema operativo, nella memoria Ram.

Ogni istruzione di Word arriva alla Cpu tramite il sistema operativo, che coordina anche gli altri programmi attivi (sempre attraverso una serie di cambiamenti della configurazione dei transistor, come abbiamo visto prima).

Il sistema operativo, inoltre, invia istante per istante informazioni al display tramite la scheda video per indicare che cosa deve apparire sul monitor. Quando si decide di salvare un documento, è sempre il sistema operativo che apre sullo schermo una finestra standard per chiedere il nome da dare e la cartella nella quale inserire il file. Raccolte queste informazioni, il sistema operativo indirizza i dati dalla memoria Ram al disco rigido o a un'al­tra locazione che era stata specificata come il floppy disc o il Cd rom.

Quanti di noi, mentre “lavoriamo” al PC, è veramente consapevole della meraviglia tecnologica che si ritrova tra le mani e della complessità dei processi necessari a produrla? Mah, assai pochi certamente.

La storia dell’elettronica (come tecnologica a sé stante) ha avuto inizio nel 1897, quando il fisico tedesco Karl Ferdinand Braun inventò una prima forma di tubo catodico, grazie al quale nello stesso anno il fisico britannico Sir John Thomson scoprì l'elettrone. Fu una scoperta rivoluzionaria, perché all'epoca non era stata ancora dimostrata con chiarezza l'esistenza degli atomi, né tanto meno la loro struttura. Ma con l'elettrone Thomson scoprì la prima particella subatomica. Una particella leggerissima, circa 1840 volte più leg­gera del più leggero tra gli atomi, quello di idrogeno, e almeno cento milioni di volte più piccola.

I pri­mi dispositivi elettronici che si diffusero furono le valvole, si­mili a quelle degli esperimenti di Thomson. Erano bolle di vetro in cui si formavano flussi elettronici. A un'estremità, un filo rovente serviva come fonte di queste particelle, che per il calore fuoriuscivano dal metallo e formavano una nube invisibile. In un altro punto del tubo di vetro, un elettrodo dotato di carica positiva attirava gli elettroni a sé.

Televisori e PC, hanno questo antenato in comune, le valvole a «raggi catodici», (come erano allora chiamati gli elettroni). Si può dire che, come l'uomo e il gorilla si sono evoluti a partire da uno stesso lontano antenato comune, anche PC e televisori hanno avuto le stesse radici e lo stesso antenato: la valvola elettronica. Nel caso del televisore, la valvola è diventata il tubo catodico.

Nel caso del PC, invece, si è tramutata in transistor.

I primi PC, infatti, erano a valvole. Ma nonostante gli entusiasmi dell'epoca (1940 circa) le valvole creavano dei grattacapi in campo elettronico: avevano bisogno di “scaldarsi” e si logoravano rapidamente, soprattutto in caso di accensione e spegnimento frequenti. La soluzione arrivò nel 1947 quando gli scienziati John Bardeen, Walter Brattain e William Shockley della Bell, inventarono il transistor.

Quest’ultimo era un dispositivo che permetteva di eseguire le stesse operazioni di una valvola, ma era composto da un materiale solido, un semiconduttore. Come indica il nome, un semiconduttore, dal punto di vista della resistenza al passaggio della corrente elettrica, è un materiale a metà strada tra un isolante come il vetro e un conduttore come il rame. Il primo materiale semiconduttore di successo fu il germanio, ma a partire dagli anni '50, al germanio si cominciò a sostituire il silicio, più economico e facile da reperire. (è il principale componente della crosta terrestre e si può ricavare facilmente dalla sabbia). I semiconduttori sostituirono rapidamente le valvole e consentirono la realizzazione del circuito integrato, o microchip, (costruito per la prima volta dalla Texas Instrument Corporation, nel 1958). Si trattava di un unico blocco cristallino a base di silicio in cui si trovavano inseriti i vari componenti elettronici necessari al funzionamento del circuito. Fino ad allora i componenti elettronici erano costruiti separatamente e assemblati, mentre da quel momento i circuiti sono stati disegnati e realizzati direttamente su dischi di silicio per mezzo di operazioni automatizzate complesse. I primi circuiti integrati contenevano una decina di com­ponenti su un pezzo di silicio largo 3 mm2. Nel 1971, la Intel produsse il primo microprocessore, il 4004, che poteva svolgere soltanto semplici operazioni matematiche ed elaborava appena 4 bit, cioè 4 cifre binarie, alla volta. Poi, via via, si arrivò all'8080 (1970) che conteneva 6000 transistor e lavorava già con 8 bit e quindi  all’8088, incorporato (1982) nel primo PC Ibm, che aveva 29.000 transistor e gestiva 16 bit a una velocità di dock di 5 megahertz. Oggi i moderni microprocessori hanno più di 100 milioni di transistor larghi appena 90 nanometri, cioè mille volte più sottili di un capello, e una frequenza di dock pari a 3,6 gigahertz, vale a dire 3,6 miliardi di ripetizioni/sec.

La costruzione di un circuito integrato è un processo straordinario. Si parte dal silicio. Lo si fa dapprima sciogliere a una temperatura di poco superiore alla sua temperatura di fusione di 1410°C. Poi lo si fa raffreddare e solidificare lentamente a partire da un piccolo seme, un cristallo iniziale che ha la funzione di avviare il processo di cristallizzazione. Il seme cristallino viene lentamente estratto e fatto ruotare: si forma così un cilindro di cristallo purissimo, largo fino a 30 cm e pesante anche un quintale. La purezza è tale che per ogni 10 miliardi di atomi di silicio ce n'è, al più, uno di altri elementi.

Il cilindro è tagliato di traverso con l'aiuto di punte di dia­mante, per formare tanti dischi di spessore pari a circa 0,6 mm, che sono poi levigati fino a diventare perfettamente lisci: sono i cosiddetti wafer, che costituiscono il substrato sul quale sono eseguite le operazioni successive. Per arrivare al microchip finale, sono oggi necessarie almeno 600 operazioni, tutte da realizzare con la massima precisione e in un ambiente molto più puro di una sala operatoria, la cleaning room.

Questi processi si realizzano con una serie di maschere metalliche, vale a dire lastre nelle quali è incisa la struttura dei vari piani che compongono il circuito. Le maschere servono per impiantare in alcuni punti specifici atomi di altri elementi che cambiano le proprietà elettriche del silicio, oppure allo scopo di depositare materiali diversi, oppure per scavare solchi microscopici con un processo detto plasma-etching, una sorta di bombardamento atomico. In questi microcanali sono inseriti anche i metalli che si usano per i collegamenti tra le varie parti del circuito e sono l'equivalente dei fili elettrici.

Così (meglio aggiungere: “all’incirca”) è fatto e funziona un PC.

Per concludere, ecco cosa pensava Einstein in materia:

     I computer sono incredibilmente veloci, accurati e stupidi. Gli uomini sono incredibilmente lenti, inaccurati e intelligenti. L'insieme dei due costituisce una forza incalcolabile.


([4]) Il termine pixel (contrazione della locuzione inglese picture element) indica ciascuno degli elementi puntiformi che compongono la rappresentazione di una immagine (detta immagine raster) nella memoria di un PC. Ciascun pixel, che rappresenta il più piccolo elemento autonomo dell'immagine, è caratterizzato dalla propria posizione e da valori (quali colore e intensità) variabili in funzione del sistema di rappresentazione adottato

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