21 luglio 2008. - Amerigo Vespucci la definì un paradiso terrestre. Tre secoli dopo il naturalista Alcide Dessalines d’Orbigny, che nel 1830 la girò in lungo e in largo, descrisse la Bolivia nel “Viaggio nell’America meridionale” come una “sintesi dell’universo” per la varietà dei paesaggi che spaziano dalla cordigliera andina ai grandi altipiani, dalle valli alle pianure ricche di fiumi, vestibolo alle meraviglie della foresta amazzonica. Ad est dell’altipiano si snoda la Cordigliera Reale con centinaia di vette sopra i cinquemila (come l’Illimani che domina La Paz), ad ovest la Cordigliera Occidentale, con alte cime vulcaniche (il Sajama supera i 6500 metri), poi sempre sull’acrocoro i grandi laghi Titicaca e Poopò, i deserti di sale di Uyuni e Coipasa, le lagune Verde e Colorada. Vette ed orizzonti sembrano fondersi con il cielo. Nelle valli il clima è mite e la natura rigogliosa. In pianura terre fertili danno raccolti in tutte le stagioni, le foreste amazzoniche pregiati legnami. E poi gas e petrolio nella regione del Chaco, al confine con il Paraguay, per non parlare degli enormi giacimenti d’argento, stagno, rame, oro ed altri minerali, che hanno segnato la terribile storia di sofferenze e sfruttamento dei nativi boliviani, indios quechua ed aymara (60%), meticci e guarani (30%), il resto sono bianchi. Quando Diego Halpa, un indio quechua, nel 1544 scoprì l’argento del Cerro Rico a Potosì, non si rese conto che toglieva il coperchio ad un vaso di Pandora. In quei mesi erano arrivati in Bolivia gli invasori spagnoli. Carlo V, il sovrano sul cui regno non tramontava mai il sole, nel 1555 già decretava Potosì “città imperiale” per sfruttarne le immense miniere d’argento. Cominciava così la storia d’indicibili sofferenze per gli indios, lastricata da almeno otto milioni di morti per arricchire la Spagna, un vero etnocidio nelle miniere d’argento di Cerro Rico durato quasi quattro secoli, poi in quelle di mercurio quando lo si usò per la depurazione dell’argento, quindi in quelle di stagno, fino ai tempi di Patiño, il tristo magnate boliviano d’America, finiti negli anni Cinquanta del Novecento. Nei secoli precedenti quel fiume d’argento dall’altipiano all’Europa faceva morti e tragedie alla sorgente, alla foce ingrassava lo sperpero spagnolo, alimentava la prima inflazione della storia ed il nascente capitalismo europeo, come pure l’inizio della rivoluzione industriale.

Questa, in pillole, la Bolivia: grande tre volte e mezzo l’Italia, quasi 10 milioni d’abitanti, con il reddito pro capite più basso dell’America Latina. Dunque un popolo povero, ma gentile e gioviale, con una storia segnata dall’instabilità politica, specie nel Novecento, tra governi militari ed una rivoluzione nel 1952, tra conati di guerriglia (qui nel 1967 fu catturato ed ucciso Ernesto “Che” Guevara) e colpi di stato, e qualche scampolo di democrazia. La Bolivia deve il nome a Simon Bolivar, il libertador venezuelano ispirato ai princìpi della rivoluzione francese che vi arrivò e vi restò un anno, lasciando nel 1826 una bella Costituzione rimasta lettera morta fino ad oggi. Ora è una repubblica presidenziale, dal 2005 è capo di stato e di governo Evo Morales, per la prima volta un indio: tempo di forti contrasti nel Paese, scosso da spinte autonomistiche e finanche da un referendum revocatorio del Presidente, in agosto. Eppure la Bolivia è una terra molto ricca: giacimenti minerari, risorse energetiche nel sottosuolo, un’agricoltura potenzialmente generosa dalle valli alla foresta amazzonica, l’allevamento di bestiame d‘ogni specie. Poi il turismo, ancora in embrione, per le sue bellezze naturali e la sua storia, dagli Incas alle reduccion (Concepcion, San Ignacio, San Rafael, San Xavier e San Josè de Chiquitos, dichiarate nel 1990 dall’Unesco patrimonio dell’umanità) delle Misiones dei Gesuiti nella foresta amazzonica, che operarono fino alla loro espulsione decretata dai sovrani di Spagna e Portogallo nel 1767, ma della cui presenza restano splendide vestigia nelle magnifiche chiese di legno e nella musica barocca, specie grazie al religioso svizzero Martin Schmid, architetto e musicista.

 

A Santa Cruz de la Sierra, nella zona piana della Bolivia, sono arrivato da alcuni giorni per conoscere da vicino una speciale emigrazione abruzzese. Santa Cruz è una città che supera i due milioni d’abitanti, ben ordinata urbanisticamente in una decina d’anelli concentrici di grande viabilità. E’ la capitale economica del Paese, per industrie, agricoltura, gas naturale e servizi, ma anche per il traffico della coca, mai radicalmente estirpato. Qui c’è l’aeroporto internazionale più importante che irradia le rotte verso l’interno. E’ luogo di richiamo dagli altipiani, forte è il processo d’inurbamento. E’ poi punto di partenza per la penetrazione nella foresta dell’Amazzonia boliviana. Da qui padre Remo Prandini, un salesiano originario di Lodrino, in Valtrompia, nel 1975 partì per penetrare fino ad Hardeman, allora villaggio di poche capanne. Là il religioso bresciano impiantò la sua missione, basata sulla formazione scolastica e sulla difesa dei diritti elementari di quella gente: un “don Milani” in una “Barbiana” in versione amazzonica. Padre Remo lottò infatti per undici anni, a rischio della vita, per affermare il diritto dei campesiños alla terra, educando nella sua scuola i loro figli al sapere ed alla consapevolezza dei propri diritti. Girava in quei posti a piedi, a cavallo o con la sua bicicletta, fino alla sua tragica morte a 44 anni, nel giorno di Natale del 1986, quando recandosi in un villaggio con qualche giocattolo per i più piccini nello zaino, cadde da un ponte di tronchi inghiottito dal fiume in piena per le piogge dell’estate. Rimane luminosa la sua testimonianza che negli anni ha dato frutti copiosi di generosità, opere e vocazioni. I suoi, giunti dall’Italia per riportarne indietro le spoglie, si trovarono di fronte alla decisa opposizione dei campesiños, arrivati persino a “sequestrare” il vescovo per tenere padre Remo per sempre. Egli infatti riposa nella sua missione, la tomba davanti la chiesa di Hardeman, tra i suoi poveri che lo amano e lo visitano ogni giorno. I lodrinesi compresero. Anzi, da allora sono diventati di casa. Attraverso l’associazione nata a Lodrino in ricordo di padre Remo, hanno riversato una valanga d’aiuti facendo di Hardeman un centro d’istruzione, di formazione professionale e di progresso civile per questa povera gente. Nel 1985, un anno prima della scomparsa, padre Remo era venuto in Italia. Era passato anche all’Aquila, a parlare di missioni in Bolivia alle Missionarie della Dottrina Cristiana, Congregazione nata nel capoluogo abruzzese nel 1890 ad opera di madre Maria Francesca De Sanctis - originaria di Castiglione a Casauria, un paese lungo la valle del Pescara - e dell’arcivescovo dell’Aquila, mons. Augusto Vicentini. Donna assai tenace, con tre sue sorelle e poche altre religiose, madre Maria Francesca seppe dare un fortissimo impulso alla propria Regola diffondendone l’apostolato nelle scuole e nelle parrocchie in tempi allora molto difficili. Nacquero così in pochi decenni, sotto la guida sua e delle Madri che le succedettero, molte case della Congregazione, in Abruzzo come in Puglia, Molise, Marche, Veneto, Lazio, Umbria e Friuli.

Con gli adeguamenti alla Regola dopo il Concilio Vaticano II, la Congregazione si apre all’azione missionaria all’estero. Madre Pierina Santarelli, all’epoca Superiora Generale, e madre Nazarena Di Paolo – l’attuale Generale, forte tempra d’abruzzese operosa, nata a Barisciano in provincia dell’Aquila – con la benedizione di Giovanni Paolo II, nell’ottobre 1986 accompagnano in Bolivia le prime sei missionarie, a Santa Cruz e ad Hardeman. Dopo appena due mesi dall’arrivo, con la scomparsa di padre Remo tre di quelle suore raccolgono il testimone della sua opera ad Hardeman, ampliando e gestendo la scuola del villaggio, dove gli abitanti sono oggi diventati quasi 4000, circa 2000 gli alunni da tutta l’area e gli studi vanno fino al livello superiore. Sulla casa, sulla materna e sui laboratori di mestiere sovrintende madre Maria Grazia Lepore, abruzzese di Corfinio – città dei Peligni dove fu usato per la prima volta il nome Italia nella Lega contro Roma, nella guerra sociale (91 a.C.) – con le boliviane suor Julia e suor Marta, mentre dell’intero sistema scolastico di tutta l’area, si cura come direttrice didattica suor Anna Andreucci, di Bominaco in provincia dell’Aquila. A Santa Cruz, intanto, erano restate tre consorelle. Nel barrio Victoria le tre suore cominciano il loro apostolato. Ora in quel quartiere la Congregazione ha una struttura per giovani aspiranti alla vita religiosa che frequentano i corsi della locale Università Cattolica. La casa è diretta da suor Erica, boliviana, coadiuvata da suor Albina De Bellis, abruzzese di Sulmona, da suor Bernadette Tavarozzi, molisana, e da suor Patrizia Timperi, altra abruzzese di Basciano, in provincia di Teramo. Nella grande città, in una villa requisita ad un narcotrafficante (ne parleremo in altra occasione), nel 1990 viene aperta una casa d’accoglienza e formazione per 70 orfane e disagiate. Oggi quella villa, affidata in comodato dalla prefettura, si chiama Hogar Maria Inmaculada. E’ gestita, insieme a suor Betty, boliviana, da madre Alessandra Carosone - nata a Monticchio, frazione dell’Aquila - che cura alla grande anche il carcere di Palmasola.

Nel 1997 un’altra grande struttura nasce a Santa Cruz. Costruita in un solo anno, sorge l’Hogar Sonrisa de Mariele, in ricordo di Mariele Ventre, l’indimenticabile Maestra del Coro dell’Antoniano di Bologna, grazie ai fondi raccolti dal “39° Zecchino d’Oro” e da altri benefattori dall’Abruzzo e dal resto d’Italia. E’ un complesso imponente, disposto su un’area di tre ettari, con strutture moderne ed un’organizzazione perfetta. Ospita 130 bambine e ragazze “interne”, che frequentano l’annesso sistema scolastico riconosciuto dallo Stato, dall’istruzione materna alla superiore, aperto anche a frequenze esterne, 800 gli alunni. Campi sportivi, piscina, palestre e laboratori corredano le strutture, alle quali con perizia sovrintende madre Diomira Doria - tenace abruzzese di Sulmona, dal 1986 una pioniera nel Paese - insieme a sei suore boliviane (le hermanas Teodora, Florinda, Zulma, Laura, Sandra e Asteria), che insegnano e coordinano il personale esterno, quaranta tra docenti ed ausiliari. Tra qualche mese le madrecitas della Dottrina Cristiana apriranno un’altra casa in Bolivia, nella città di Cochabamba. Dal 1995 la Congregazione ha attivato una missione anche in Africa, nel Congo francese. C’è una bella fioritura di aiuti dall’Italia, per sostenere la crescita sociale ed umana delle giovani ospiti boliviane negli Hogar delle Missionarie della Dottrina Cristiana, con le adozioni a distanza. Una forma diretta di solidarietà davvero efficace che porta a conoscere da vicino le povertà del mondo, senza sbrigativi scarichi di coscienza cui sono abituate le società opulente, alle quali dà fastidio la visione della sofferenza. E’ poi un valido supporto a queste religiose, da tutti apprezzate e rispettate in Bolivia, alle quali non manca mai il sorriso e le cui giornate di lavoro non conoscono soste. In loro, infine, riconosco con orgoglio la tenacia e la determinazione tipiche dell’indole abruzzese, anche in coloro che in Abruzzo hanno solo realizzato la propria formazione religiosa, ricevendo comunque di quell’indole l’imprinting. Dunque una bella comunità abruzzese in terra boliviana, di recente arricchitasi con l’arrivo di Mons. Luciano Suriani, Nunzio apostolico in Bolivia. Nato ad Atessa, in provincia di Chieti, Mons. Suriani è Vescovo di Amiternum, l’antica diocesi della città sabina - patria di Caio Crispo Sallustio, grande storico romano - situata poco distante dal luogo dove molti secoli dopo sarebbe stata fondata L’Aquila.

 

*gopalmer@hotmail.com - componente del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo (Cram)