"Ogni metro
potrebbe essere l'ultimo..."

La lettera testamento di Matteo Miotto, ucciso il 30 dicembre in Afghanistan.
Introduzione di Giovanni Capirossi.

4 gennaio 2011. - Ciao carissimo Matteo. È triste dare l’addio a un ragazzo di 24 anni come Te.  Un ragazzo con tutta una vita da vivere e una strada da percorrere guidato dai grandi ideali e dai valori ricevuti in eredità da una famiglia esemplare in cui si ha il coraggio di credere e di pregare. 

Voglio dirti grazie per le bellissime parole che hai scritto nella tua “lettera-testamento”: una lezione di vita che pubblico perché la leggano tutti i miei amici italiani e messicani e tutti gli amici che in Italia e nel mondo leggono “PUNTO D’INCONTRO” una rivista che è nata per aiutare le persone ad incontrarsi e a volersi bene. 

La Tua lettera la leggeranno tanti ragazzi e tanti giovani come Te per imparare dall’esempio della Tua vita che si può amare anche su un campo di battaglia in cui la guerra non è ancora finita quando, come Te, si possiede la virtù della solidarietà e si sa guardare e leggere negli occhi della gente la sua fame e la sua sete di amore e di guistizia.

Leggendo la Tua lettera mi sono ricordato che quando avevo 10 anni anch’io sono stato uno di quei bambini vestito con quattro stracci e senza scarpe che correvano incontro ai soldati con la mano tesa e loro ci regalavano con un sorriso una fetta di “pane bianco” e una cioccolata.  Erano altri tempi.  Era la nostra Italia subito dopo la tragedia della seconda guerra mondiale.  I soldati erano gli “Alleati” e specialmente gli “Americani” e io, italiano e romagnolo, ero uno di quei bambini.

Purtroppo gli anni passano e gli uomini non riescono a volersi bene e a vivere in pace.  Speriamo che la Tua lettera, carissimo Matteo, risvegli in tutti noi il desiderio di solidarietà di cui abbiamo tanto bisogno.  Speriamo che il Tuo eroico sacrificio non sia motivo di ulteriori divisioni.  Mi auguro proprio che il Tuo esempio serva a farci capire che invece di cercare colpevoli dobbiamo cercare soluzioni.  Che invece di costruire muri che dividono è giunta l’ora di costruire ponti sui quali transitare per incontarci e cercare insieme le migliori soluzioni per costruire un mondo di pace in cui non ci siano più dei giovani come Te che trovano la morte, vittime dell’odio che separa e uccide.  Lotteremo insieme per costruire un mondo più bello per tutti.  Insieme perché l’Unità d’Italia sia finalmente una bella realtà e ci trovi tutti pronti a ridare all’Italia il prestigio e l’ammirazione di tutti i popoli del mondo.  Grazie Matteo. Questo è il nostro impegno e questa è la nostra promessa.

Salutami tanto il Nonno e digli che in Italia e nel mondo siamo ancora tanti quelli che crediamo nei Suoi ideali e nei suoi valori.  Da Città del Messico mandiamo un forte abbracio ai Tuoi carissimi Genitori e ai Tuoi Familiari e tutte le persone che ti volevano bene e condividevano con Te sogni e ideali.

 

Giovanni Capirossi

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4 gennaio 2011. - Una lettera quasi premonitrice, quella del caporal maggiore Matteo Miotto, ucciso oggi in Aghanistan 1, letta il 4 novembre scorso a Thiene, dove era nato, e pubblicata da Il Gazzettino. ''E' il suo testamento'' commenta il sindaco di Thiene, Maria Rita Busetti.

Ecco il testo completo di quella missiva.

''Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere. Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo.

Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano.

L'essenza del popolo afgano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi. Come ogni giorno partiamo per una pattuglia.

Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo afgano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince. Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi.

La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio. Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame. Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella... Dei loro padri e delle loro madri neanche l'ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria di non essere lì per giocare.

Non sono lì a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno lavorando... e i fratelli maggiori, si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa. Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta...

Delle donne neanche l'ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all'ombra. Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi...

Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati.

Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: 'brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedare' mai...' Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi 'visto, nonno, che te te si sbaia'...''.


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Una carta casi premonitoria la del mayor Matteo Miotto, muerto en Afganistán el 30 de diciembre, leída el 4 noviembre pasado en Thiene, donde había nacido, y publicada por "Il Gazzettino". «Es su testamento», comentó el alcalde de Thiene, Maria Rita Busetti.

A continuación, el texto completo de ese mensaje.

«Quiero dar las gracias en nombre mío, pero sobre todo en nombre de todos nosotros militares en misión, a los que nos quieren escuchar y no nos hacen el favor de pensar en nosotros sólo en ocasiones tristes, como cuando la bandera envuelve a cuatro alpinos que murieron cumpliendo con su deber. Corren días en los que la identidad y los valores parecen conceptos obsoletos, asfixiados por una realidad que nos niega el tiempo para pensar acerca de lo que somos, de dónde somos, a qué pertenecemos.

Estos pueblos de tierras desafortunadas, donde la corrupción domina, donde el control no sólo lo tienen los gobernantes sino todavía los líderes grupales, estas personas han sabido conservar sus raíces después de que los mejores ejércitos, las más grandes fuerzas militares marcharon sobre sus casas: en vano.

La esencia del pueblo afgano sigue viva, sus tradiciones se repiten sin modificaciones, es posible que pensemos que están equivocadas, obsoletas, pero por miles de años han permanecido sin cambios. Son personas que nacen, viven y mueren por amor a sus raíces, y a la tierra que los alimenta. Entonces te das cuenta de que esta gente extraña con hábitos a veces extraños tiene algo que enseñarnos también. Como todos los días nos vamos para una vuelta de patrullaje.

A medida que nos acercamos a nuestros medios de transporte Lince, antes de salir, miradas bajas, rituales de superstición, algunos se persignan ... En los vehículos blindados, en el interior, ni una palabra. Sólo la radio que nos proporciona información actualizada sobre los posibles insurgentes, posibles zonas para emboscadas, nada más el aire ... Consciente de que el suelo de Afganistán está sembrado de bombas de fabricación casera listos para estallar con el paso de las seis toneladas de nuestro Lince. Somos el primer vehículo de la formación, cada metro podría ser el último, pero no piensas en ello.

La mente está demasiado ocupada buscando algo inusual en el terreno, por fin estamos en las afueras de la aldea. Somos recibidos por los niños que se convierten en 10, 20, 30, estamos rodeados, se llevan la mano a la boca y ya sabemos lo que quieren: tienen hambre. Míralos: están descalzos, con ropa vieja que seguramente ya fue usada por más de un hermano o hermana ... De sus padres y sus madres ni rastro, la aldea, nuestra aldea, es un vaivén de niños que no parecen estar allí para jugar".

No están ahí por casualidad, tienen cuatro o cinco años, los más grandes a lo mucho diez y con ellos un montón de maleza. Luego miras con cuidado y bajo la maleza hay un burro, sobrecargado, trae consigo la cosecha, están trabajando ... y los hermanos mayores, de no más de catorce años, con un rebaño que deja atónitos incluso nuestros alpino originarios de Cerdeña, que de cabras y ovejas saben mucho. Detrás de las ventanas de las chozas de barro y paja un adulto nos está mirando, por la barba dirías que tiene sesenta, setenta años y luego descubres que tiene, máximo, treinta ...

De las mujeres no hay rastro, las pocos que tardan en regresar a nuestra llegada llevan puesto el burka completo: habrá cuarenta grados en la sombra. Lo poco que tenemos con nosotros lo dejamos aquí. Todos antes de salir a un patrullaje sabemos bien que tenemos que llenarnos los bolsillos y el vehículo con agua y víveres: obviamente no para nosotros ...

Y luego dicen que nosotros, los alpinos, hemos cambiado ...

Recuerdo cuando mi abuelo me hablaba de la guerra: "Es algo feo, tienes suerte de que no te haya tocado ..." Y aquí estoy, valle del Gulistan, el centro de Afganistán, con en la cabeza esa extraña gorra con pluma que para nosotros los alpinos es sagrada. Si pudieras escucharme, te diría, "¿Ves, abuelo, que te equivocaste?».

 

(repubblica / puntodincontro)

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