Rosa Vercellana,
la bela Rosìn

Donne d'Italia
Di Claudio Bosio.

Rosa Vercellana con Vittorio Emanuele.

 

29 novembre 2010. - La "Coppia" non poteva essere peggio assortita.

Lui era un Principe di sangue reale, e lei una popolana, rozza e prosperosa.

Lui (secondo Montanelli, nell’Italia del Risorgimento) era «franco, schietto, manesco, prepotente, grossolano negli scherzi, coraggioso, fanfarone, smanioso di moto, […]. Perfetto cavaliere e instancabile cacciatore. E, decisamente, era brutto come un orco!»

Lei, aveva forme giunoniche e una femminilità prorompente, lunghi capelli castano-scuro e una vistosa frangetta. Una bellezza sana e abbondante, del tutto conforme ai gusti grossolani di Lui, vero … seduttore da pagliai.

Lei venne battezzata col nome di Maria Rosa Teresa Aloisia;

Lui come Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia.

Lei era una ragazza analfabeta, parlava solo il dialetto piemontese, non conosceva le regole della buona società, aveva un carattere estroverso e giocondo.

Lui era da sempre assolutamente refrattario agli studi e d’istruzione assai carente: di esser colto non sentì mai il bisogno. Dai libri si tenne sempre alla larga e, quindi, si guardò bene dallo scriverne, come, ahinoi!, fece Garibaldi.

Lei imparò, caparbiamente, con il tempo, e perché costretta dalle consuetudini di Palazzo, a biascicare (e scribacchiare) un po’ d’italiano e di francese.

Lui le stava alla pari: si esprimeva in dialetto e, in seconda battuta, in francese; con l’italiano si trovò sempre a mal partito e, quando vi si cimentò, risultò sempre … respinto con perdite.

Quando si conobbero, Lui aveva 27 anni e lei appena 14. Entrambi morirono relativamente giovani: Lei (1833-1885) aveva 52 anni soltanto e Lui (1820-1878) 58 anni solamente.

Lei era di rustica progenie essendo figlia di un ex-tamburo maggiore dell’esercito di Lui;

Lui, anche se a prima vista non lo sembrava proprio, era il primogenito di Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, e di Maria Teresa d'Asburgo-Toscana.

Lui era destinato a diventare il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, detto il Re Galantuomo, passato ai posteri come il Padre della Patria;

Lei non sarebbe mai assunta al rango di Regina, ma sarebbe stata innalzata alla dignità di Contessa di Mirafiori e di Fontanafredda (1859). Divenne, poi, la moglie morganatica del Re: nell’ottobre del 1869, Vittorio Emanuele, alle Cascine Vecchie di S.Rossore, dove si era buscato una perniciosa polmonite, ricevette, previo … atto di clemenza papale!, i Sacramenti e la sposò, dapprima morganaticamente e poi con rito religioso, dopo 22 anni di "storia a due".

Dicono bene i francesi: «Qui se rassemble s’assemble!» Simile con il suo simile.

"Somiglianti" fin che si vuole, ma, per quanto vi fossero fra i due delle indubbie affinità essenziali, condurre in porto un ménage di 45 anni con un ometto come Vittorio Emanuele, non fu certamente né semplice né facile per la Bela Rosìn. Rospi da mandar giù ne ebbe a bizzeffe!

Innanzi tutto ebbe (sempre) a che fare con un vero e proprio erotomane. Gli storici concordano nel dire che il conclamato "Padre della Patria" fu effettivamente tale non solo perché fu uno dei fondatori dell’Italia-unita, ma anche perché, fra legittimi e bastardi, mise al mondo una pletora di figli. Siccome per far figli bisognava essere in due (allora non si aveva, per fortuna o meno, neanche la più lontana idea di fecondazione in vitro o di maternità assistita!) per sfornarne così tanti occorreva avere a disposizione parecchie …. fattrici.

E Lui, in questa "attività" s’impegnò a fondo, con eccezionale continuità e stallonesca resistenza. Era, come si dice, di bocca buona: andavano bene tutte quelle che, fosse solo per un momento, lo ringalluzzivano. Ad essere pignoli, si potrebbe osservare come le sue preferenze andassero in particolare alle adolescenti. Emulo, in questo, di Maometto (marito di ʿA’isha, di 9 anni), e di casanova, (pazzo d’amore per Marianna Charpillon, sedicenne, prostituta londinese), nonché di quel papa Formoso[1] che, per curarsi la febbre, usava coricarsi fra due giovincelle.

D’Azeglio, che non aveva peli sulla lingua e che per questo le dame di corte gratificavano con il nomignolo di "boccalùn", diceva che Vittorio Emanuele preferiva i tipi giunonici, dai floridi seni, dai fianchi massicci, dalle braccia opulente e le gote piene. Come anche a tavola, alla qualità preferiva la quantità. I suoi erano capricci, non passioni: incontri spesso frettolosi, amplessi fulminei, coups de canapé e … via.

E i figli di tanta onnivora attività galante? La conta ufficiale è presto fatta: la moglie Maria Adelaide ne partorì 7; la Bela Rosìn 3 (due soli sopravvissero) 2 l’attrice Laura Bon, 1 la "maestrina di Frabosa", 2 di Virginia Rho, 1 di Vittoria Duplessis. Totale: 16.

E dire che Vittorio, a detta dei suoi biografi, nella donna vide solo, o soprattutto, «il riposo del guerriero e del cacciatore». Con tre indiscusse eccezioni: la Moglie, Maria Adelaide, l’attrice Laura Bon, e Rosa Vercellana, la Bela Rosìn, la fedele compagna della sua infedelissima vita. Le versioni sul loro primo incontro sono diverse. Secondo alcuni sarebbe avvenuto a S.Maurizio Canavese, durante un’esercitazione militare: la giovanissima Rosa avrebbe consegnato al principe una supplica per il fratello Domenico, militare imprigionato per insubordinazione. Secondo la contessa Nice da Camino de Simone, discendente diretta della Bela Rosìn, l’occasione sarebbe stata una battuta di caccia nel Monferrato: Vittorio, vestito in un modo anonimo e informale, avrebbe notato la ragazzina nella casa paterna di Moncalvo, dove aveva fatto sosta con altri cacciatori. Certa comunque è stata la fulmineità dell’interesse: la quattordicenne Rosina lasciò il Monferrato e andò a vivere nel castello di Stupinigi, in una dipendenza nel parco, affidata alle cure di una sagace precettrice, madame Michela. A Stupinigi la giovane, ignorante popolana, crebbe in età e savoir faire, imparando a cavalcare e acquisendo una più che sufficiente educazione di base. Ma, quel che più conta, dimostrando la capacità di tenere legato il Principe, che nel frattempo era diventato Re. Anche lei aveva le sue fisime: amava essere elegante, ma, poverina, non aveva neanche la più lontana idea di cosa fosse l’eleganza. Non si abbigliava: si addobbava, come una Madonna votiva. Ostentava il suo statuario décolleté grondante di kilometriche collane di perle, e faceva sfoggio di anelli spropositati e braccialetti enormi, con orecchini che sembravano appliques.

«Impossibile immaginare una donna vestita con un cattivo gusto più completo» dirà di lei il conte Henry d’Ideville, segretario della legazione francese a Torino, noto per il suo pettegolume. Resa forte e matura da due gravidanze, una a quindici e la seconda a diciotto anni, Rosina si rivelò una donna pratica, discreta e determinata. Nessuna capì Vittorio meglio di lei, anche se altre, magari più istruite di lei, non lo amarono meno, lo resero padre al pari di lei e cercarono di legarlo in mille modi diversi. Si può dire che, chiudendo un occhio, anzi tutt'e due, sui continui adulteri del marito, lasciandogli vivere la vita libertina di sempre, Rosina se lo ritrovò sempre di ritorno a casa, come se niente fosse successo.. Sapeva che a suo modo, Vittorio le voleva bene, e che il suo gallismo, più che un vizio, era una fatalità genetica. Morale della favola: lei riuscì dove le altre fallirono.

Lei ed il Re, avevano in fondo gli stessi gusti. Erano entrambi ghiotti di bagna cauda, di lumache, di pollo con cipolle, di tajarin con tartufi, leccornie che lei personalmente gli confezionava e gli ammanniva, mentre lui se ne stava seduto a tavola, in pantofole, fumando il suo sigaro. Lui che era così allergico all'etichetta di corte, con Rosina, poteva essere un uomo, il suo "Bigio", come lei lo chiamava. L’istintiva, intraprendente Rosina non sbagliò mai una mossa, e Vittorio abboccò felice a quell’amo. È pur vero che la cornificò, spesso e volentieri, ma, per così dire, fu solo …. per esuberanza ormonale. In altri termini: gli piacevano tutte, ma amò solo lei.

L’antiquata aristocrazia piemontese, ormai decadente, e in particolare le cosiddette patrizie, non persero mai un’occasione pere farle intendere come fosse considerata una serva che era riuscita a carpire la buonafede del re. A chi le chiedeva, per esempio, quanto le era costata la spesa da lei fatta al mercato, la Bela Rosìn, rispondeva, pronta e mordace: «E chila marchejsa, vaire ij cossòt ch’a l’ha ant la borsa?» (E lei, marchesa, quanto le zucchine che ha nella borsa?). Non era il caso di insistere, in fatto di battute avrebbe vinto sempre lei!

Ebbe dichiaratamente contrario, fra tanti altri, il conte di Cavour, che la detestava apertamente. Poiché il Re era pieno di debiti, per convincerlo a lasciare Rosina, lo statista decise di proporgli uno scambio: il governo gli avrebbe riconosciuto un assegno di 2 milioni di lire (circa 10 milioni di euro attuali) in cambio della liquidazione dell’amante. Vittorio Emanuele incassò l’assegno, ringraziò, ma aggiunse che si sarebbe tenuto Rosina, «ca l’è ‘na gran bela fia», che è una gran bella filgiola.

Della coppia Vittorio-Rosina ci sono pervenute numerosissime fotografie, in cui compaiono spesso assieme ai figli, Vittoria e Emanuele Alberto. Lei sfoggia i suoi vaporosi, vistosissimi vestiti, dei quali la stampa monocromatica non ci permette di apprezzare i colori ma che comunque ci mostra, assai spesso, la Rosina con le sue volpi, i suoi ermellini e gli immensi mantelli di lana bianca che costituivano, per lei, il massimo della raffinatezza.

Ma, quello che più colpisce in questi ritratti è la conformazione fisica del Re. Bassotto, piuttosto massiccio, con una faccia da orco e con occhi piccoli, sporgenti, con barba e baffi spaventosi (usava tingerseli). Se indossava una marsina, aveva l’aria di un rozzo contadinotto, costretto a mascherarsi per partecipare a qualche cerimonia o ricevimento. Invece, in abito da caccia, Vittorio sembrava … un’altra persona, cioè il vero se stesso. Era a suo agio, lo si vede benissimo, con la pesante giubba di fustagno, l’enorme casacca di taglia caporalesca, l’inseparabile panciotto stretto da una cintura di cuoio, gli stivaloni alla scudiera, il cappellone di feltro, e la doppietta in spalla.

Era tanto trasandato nel vestire quanto pantagruelico nel mangiare: un solo pasto al giorno ma di dimensioni gigantesche. (Poco vino, per altro: solo qualche coppa di champagne). Oggi come allora, è difficile comunque credere che il primo Re d'Italia, basso, tracagnotto e sanguigno, abbia avuto qualche riscontro genetico nella figura magra e longilinea (2,04 m) del padre Carlo Alberto, replicata perfettamente nel fratello Ferdinando[2].

Come si fa a saperlo? Purtroppo, a quei tempi, l’analisi genetica a base del DNA non era (ovviamente) ancora in uso. Tant’è. Non ci rimane, dunque, che far nostro il modo di dire popolare: "Mah! Scherzi della natura!"

Le abitazioni dove la Bela Rosìn incontrava il suo Bigio sono state tante. I loro primi incontri clandestini (1847), ebbero luogo (come già accennato) nella palazzina di caccia di Stupinigi, in una dipendenza del parco, dove la ragazzina si trasferì quasi subito. Una volta nominata (undici anni dopo: 1858) Contessa di Mirafiori e Fontanafredda, il Re comprò per Rosina il castello di Sommariva Perno. Quindi, nel 1863, la neo-Contessa si trasferì negli Appartamenti Reali di Borgo Castello, all'interno dell'attuale Parco regionale La Mandria. Tale residenza, che non apparteneva alla Corona ma al patrimonio privato del re, rimase sempre la preferita della coppia, poiché Vittorio Emanuele amava rifugiarvisi per cacciare e sfuggire alla vita di corte.

Nel 1864, Rosina seguì il re a Firenze, divenuta Capitale d’Italia, stabilendosi nella villa "La Petraia". Nel 1869 mentre abitavano alle Cascine Vecchie di S.Rossore, il re si ammalò e temendo di morire sposò Rosa Vercellana con un matrimonio morganatico, ovvero senza l'attribuzione del titolo di regina. Il rito religioso si tenne il 18 ottobre di quell'anno. Il matrimonio fu celebrato anche con rito civile otto anni dopo, il 7 ottobre 1877, a Roma. Vittorio Emanuele morì tre mesi dopo, il 9 gennaio 1878. Rosa Vercellana trascorse gli ultimi anni della sua vita nel palazzo Feltrami di Pisa, che il re aveva acquistato per la loro figlia Vittoria, ove morì nel 1885, a 52 anni, stroncata da una meningite fulminante.

La sua … attuale, ultima dimora è il Cimitero di Torino.

In realtà, poiché la casa reale le negò il diritto di riposare col marito al Pantheon di Roma, non essendo mai stata regina, i figli decisero di costruire a Torino una copia del Pantheon in scala ridotta, poi soprannominata "Mausoleo della Bela Rosìn". Il Mausoleo ancor oggi appare come un imponente edificio neoclassico, opera dell’architetto Angelo Demezzi, a pianta circolare, con circa sedici metri di diametro e altrettanti di altezza, ornato da alte colonne. Circondato da un parco di circa trentamila metri quadrati, cintato da un muro alto circa tre metri, esso si affaccia su Strada del Castello di Mirafiori, al confine tra il comune di Torino e quello di Nichelino.

Purtroppo la storia del Mausoleo è stata tormentata da episodi drammatici e degradanti.

Nel 1970 il Comune di Torino acquistò il sepolcreto ancora intatto dall'ultima discendente di Rosa Vercellana, Vittoria Guerrieri Gromis di Trana, senza però averne deciso la destinazione. Nel 1972 il parco fu aperto al pubblico e quello stesso anno il Mausoleo fu profanato: le bare furono aperte e le salme vennero mutilate in cerca di gioielli.

Brutta fine per la tomba di questa "Cenerentola del Risorgimento, clandestina della nobiltà, prima vera regina d'Italia". (Olivieri)

Isolata e disprezzata dai nobili, Rosa Vercellana, fu invece amata dal popolo per le sue origini contadine e per i suoi modi di fare, semplici e spontanei: si dice che la canzone popolare risorgimentale La bela Gigogin si riferisse in realtà proprio a lei.

……….

Di quindici anni facevo all'amore...

Dàghela avanti un passo,

delizia del mio core!

……………


[1] Formoso (816 ca. –896), 111º papa della Chiesa cattolica, subì il cosiddetto Sinodo del cadavere (Synodus horrenda) cioè un processo post-mortem per sacrilegio. La mummia fu riesumata dal sepolcro, abbigliata con i paramenti pontifici e collocata su un trono nella sala del concilio, subendo un vero processo giudiziario. Il verdetto stabilì che il deceduto era stato indegno del pontificato. Tutti i suoi atti e  gli ordini da lui conferiti vennero dichiarati non validi. Le vesti papali vennero strappate dal suo corpo, le tre dita della mano destra, usate come Papa per le benedizioni, vennero amputate e il cadavere fu poi trascinato per le vie di Roma e gettato infine nel Tevere.

[2] Per la storia Vittorio Emanuele era figlio primogenito di Carlo Alberto e Maria Teresa di Asburgo-Lorena. Sulle sue origini, però, pesa il giallo di un incidente. Il 16 settembre 1822, la famiglia reale sabauda era ospite del Granduca di Toscana, al Poggio Imperiale di Firenze. La giornata, caldissima, era resa ancor più fastidiosa dalle … incursioni di molte zanzare, che infastidivano il Principino, mentre riposava nella culla, vegliato dalla balia Teresa Zanotti. La zanzariera si rivelava insufficiente allo scopo, per cui la nutrice pensò usare di una candela accesa per dare alle fiamme quante più moustiques possibile. L’operazione però andò male: la zanzariera prese fuoco e la stessa nutrice, nel tentativo di salvare l’Infante, appiccò fuoco alle proprie vesti. Secondo la versione ufficiale dei fatti il bambino venne salvato dai servitori accorsi alle urla della nutrice, riportando soltanto alcune lievi scottature, senza conseguenze. Teresa Zanotti Rasca, invece, morirà il 6 ottobre successivo, dopo venti giorni di agonia per ustioni riportate in tutto il corpo. Com’era possibile che la bambinaia fosse morta vittima del fuoco, che la culla fosse andata distrutta dalle fiamme, e invece il bambino, avvolto dalle lenzuola e dai panni, fosse rimasto incolume? Già dall’indomani cominciò a circolare la voce che il piccolo fosse stato sostituito col figlio di un certo Tanaca, macellaio a Poggio Imperiale.

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…«ela propri bela
chiese Vittorio Emanuele
al capitano Casale, suo aiutante di campo
con compiti di ruffianeria

Bruno Vespa, Donne di cuori