Alfonsina Strada,
la diavolessa in bici

Donne d'Italia, di Claudio Bosio.


 

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18 luglio 2011. - Il nome anagrafico della nostra diavolessa in bici, era «Alfonsa Rosa Maria Morini, detta Alfonsina» essendo nata in Emilia a Riolo di Castelfranco. Era la seconda di dieci figli; i genitori erano braccianti ("lavoratori occasionali", diremmo oggi). Alla località dove abitava era stato affibbiato un soprannome altamente … descrittivo: Fossamarcia. Al tempo, vivere in campagna era assai poco piacevole: vi imperavano flagelli come tifo, tubercolosi, pellagra e tanta miseria, morale e materiale. Alfonsina crebbe in questo ambiente: aveva un fisico forte, era ricca di salute ma povera di istruzione. Per lei, come per tanti altri suoi conterranei, baluginava un miraggio: far fortuna altrove, lontano dalla terra natia.

Un bel giorno, appunto nel 1901, il padre Carlo rientrò a casa con una bicicletta. (Era così decrepita che il proprietario se ne era disfatto, abbandonandola per strada). Chiarì subito che non era un regalo per i figli, ma un mezzo per rendere meno lungo e faticoso il quotidiano andirivieni tra casa e luogo di lavoro. Ma Alfonsina, che, a soli 10 anni lavorava già come sartina, se ne impadronì, riservandosene l’uso esclusivo. In poco tempo imparò a reggersi bene in sella, a correre più di tanti maschi e, infine, a vincere nelle corse di paese (premio più ambito: un maialino vivo). Le "2 ruote" divennero presto per lei un impegno quasi totale. Si allenava con regolarità sulla via Emilia e non disdegnava di sfidare ciclisti-uomini in gare improvvisate.

Senza volerlo ma a sue spese, scoprì il messaggio recondito della bici: «Nel ciclismo si è soli contro tutti». I primi scontri furono con la famiglia (che si vergognava di lei) e poi con i compaesani (che la deridevano).

Così, Alfonsina maturò la decisione di andarsene … in fuga solitaria!

Appena sedicenne, lasciò quindi il paesello ed i parenti per correre nei velodromi di Torino e Milano, dove le corse femminili richiamavano sempre più praticanti e spettatori. La sua fama crebbe in modo esponenziale. Strappò ingaggi a Parigi, esibendosi come pistard(e) al Parco dei Principi e al mitico Velodrôme d’Hiver, e andò a correre anche in Russia al Grand Prix di Pietroburgo (premiata con una medaglia dallo zar Nicola II).
 

Il Velodromo Sempione di Milano nel 1914.


Tutto questo nel 1911, a 20 anni. Era diventata, diremmo noi, una vera ciclista professionista.

Le sue foto d’epoca, sbiadite, in bianco e nero, la ritraggono in bicicletta mentre sta sur place, in pantaloncini corti, piccola e muscolosa, con capelli corti e capricciosi a contorno di un viso un po’ paffuto, sempre molto compunta, con un sorriso appena accennato.

Mano a mano che aumentava il caché per le sue prestazioni sportive, Alfonsina acquisì sempre maggior considerazione e rispetto da avversari e impresari. Tuttavia lei rimase sempre una specie di organo estraneo trapiantato in un mondo concepito e costruito per soli uomini, organo sempre pericolosamente a rischio rigetto. Il "ciclismo professionale", propriamente detto, era un ambientino poco raccomandabile (non solo per una donna) dove i colpi bassi e le combines erano all’ordine del giorno e dove la forza fisica prevaleva sul talento, l’abilità e la tecnica.
 

Il velodromo d'Hiver.


Figurarsi quale sospiro di sollievo dovettero tirare genitori quando, nel 1915, a 24 anni, l'Alfonsina sposò il cesellatore-intagliatore Luigi Strada. Purtroppo questo sospiro di sollievo durò quanto la famosa rosa di Malherbe, «l’espace d’un matin»: come regalo di nozze, infatti, Luigi, uomo moderno e disinibito, donò alla mogliettina una fiammante bicicletta da corsa! L'anno successivo la coppia si trasferì a Milano e Luigi divenne l'allenatore della moglie che, probabilmente per gratitudine, si fece sempre chiamare Strada e non Morini.

Correva (… anche lui!) l’anno 1917. Per il 14 novembre, appena 20 giorni dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre), era programmato il 13° Giro di Lombardia. Il problema, ovviamente, era la penuria di partecipanti. Gli organizzatori della Gazzetta dello Sport, accolsero quindi la domanda di Alfonsina, che coronò il sogno di misurarsi con i grandi campioni dell’epoca, quali, ad esempio, gli italiani Girardengo e Belloni, il belga Thijs e il francese Pellissier. La "nostra" si piazzò 29a, a 1h 34' di ritardo rispetto al vincitore Philippe Thijs che percorse i 204 km a 29,28 km/h di media, in 6h58'02".

La fine della guerra e il ritorno alla normalità relegarono la sua figura di ciclista a un ruolo di secondo piano. Gli uomini erano tornati padroni dello sport e il ciclismo sembrava poter fare a meno di lei. Ma Alfonsina non si diede per vinta. Sostenuta da un’enorme passione e da un'incrollabile fiducia in sé stessa, continuava a partecipare a corse su pista e su strada.

La sua caparbietà fu premiata tanto da farle partecipare, unica donna, al Giro d’Italia del 1924. La corsa era stata boicottata dalle squadre più prestigiose. Queste pretendevano che gli organizzatori riconoscessero sostanziose rimunerazioni per i grandi campioni (Girardengo, Bottecchia, Brunero ecc.) del loro organico. La Gazzetta dello Sport rifiutò, ammettendo per contro la partecipazione di corridori isolati ("individuali"). Per inciso, questi concorrenti, in quanto privi di appoggio, dovettero essere … materialmente mantenuti dalla stessa organizzazione: da Milano partirono 600 polli, 750 kg di carne, 720 uova, 300 kg di biscotti, 120 kg di cioccolata, quintali di frutta, marmellata e acqua.

La partecipazione di Alfonsina se, da un lato, poteva ridare interesse alla competizione, poteva d’altra parte screditare il Giro facendolo considerare un circo ambulante. Forse per questo, il nome di Alfonsina non comparve tra gli iscritti se non poche ore prima della partenza, quando sulla Gazzetta comparve tra i partecipanti il nome di Alfonsin Strada. Un errore del proto? Mah, forse un éscamotage degli organizzatori che, almeno inizialmente, preferirono dar poco risalto alla presenza di una donna fra i concorrenti. Alla partenza da Milano, comunque, Alfonsina fu sommersa da una valanga di irrisioni, censure, biasimi e volgarità, in verità assai meschine. Valga ad esempio la canzone che le dedicò il giornale Guerin Sportivo: «…Alfonsina non ti scoraggiare / se tu fori: siamo in mille / pronti il buco ad otturare…».

Il 13° Giro d’Italia, non era certo roba da … femminucce. Un percorso di 3613 km, con 12 tappe intervallate da l giorno di riposo. I partecipanti furono 90. Unica attenzione usata al concorrente n° 72, perché donna, fu la messa a disposizione del bagno, per lavarsi dopo la tappa, solo dopo che tutti i ciclisti fossero già a letto.

Le partenze erano quasi sempre notturne e le fatiche erano veramente disumane: tappe di circa 300 km/ciascuna, tante cadute rovinose, innumerevoli forature e polverose strade sterrate. Per Alfonsina la prima tappa fu un calvario: freddo, stanchezza, momenti di scoraggiamento, crisi di vera e propria fame (pochi i posti di rifornimento). Ma già dal secondo giorno di corsa la situazione cambiò radicalmente.

La gente aveva saputo che "il 72" era una donna e si ammassava a bordo della strada per vederla e incitarla. Le veniva dato da bere, offerto da mangiare, ma, quel che più contava, veniva sostenuta con un calore sino allora riservato soltanto ai grandi campioni.

E Alfonsina ricambiava: si fermava a lasciare cartoline o firmare autografi. Era diventata la beniamina di tutti: gli uomini la guardavano con curiosità, le donne con non celata ammirazione. Anche se tenere il ritmo dei maschi era impresa quasi impossibile, riuscì sempre a terminare le tappe senza penalità.

Almeno fino alla tappa L'Aquila-Perugia, quando ruppe il manubrio, lo sostituì con un manico di scopa di una contadina, arrivando al traguardo con altri atleti «FTM», cioè fuori tempo massimo. Stando al regolamento, c’era poco da fare: estromissione dalla corsa! Tuttavia il direttore Colombo, cui la presenza muliebre al Giro andava più che bene, trovò un conveniente compromesso. La Strada poteva prendere parte a tutte le tappe, ma i suoi tempi non sarebbero stati valevoli per la graduatoria finale. Era una tipica soluzione ….all’italiana: fuori dalla classifica ma ancora dentro la corsa. Fu così che Alfonsina fu la 31ma dei 33 atleti che portarono a termine il Giro d'Italia 1924.

I soldi (guadagnò più di 30.000 lire) li inviò a un manicomio di Milano, dove il marito era ricoverato. Dopo il Giro continuò a "vivere di bici" esibendosi in Spagna e Francia, in veri e propri spettacoli da circo (cerchio della morte) e partecipando, pateticamente!, a qualche corsa. Il mondo del ciclismo maschile le aveva voltato definitivamente le spalle, anche perché le due ruote, modernizzandosi, avevano perduto il fascino romantico di inizio secolo. I ciclisti erano sempre più atleti e sempre meno esagitati giramondo.

Tuttavia, quando Alfonsina si cimentò con altre donne, non ci fu mai storia. A 46 anni, nel 1937, batté a Parigi la campioncina francese Robin e a 47, a Longchamp, conquistò il record mondiale dell'ora percorrendo 35,28 km.

L'età, però, avanzava impietosa e la bicicletta tornò ad essere una passione più che un lavoro, il mezzo di trasporto al quale affiancherà la moto, il suo grande amore senile.

Intanto si stabilì definitivamente a Milano, ma perse il suo primo tifoso: il marito Luigi Strada. Rimasta vedova, Alfonsina si risposò nel 1950, a 59 anni, con un ex pistard, il gigantesco Carlo Messori, con l'aiuto del quale continuò nella sua (ormai ridotta) attività sportiva fino a quando non decise di abbandonare l’agonismo, ma non la bicicletta che rimase il suo mezzo di locomozione preferito.

A pensarci bene, gravitò sempre nel mondo delle 2-ruote, perché con il secondo marito aprì a Milano un negozio di vendita-biciclette con annessa una piccola officina per le riparazioni.

La sua ultima gara la corse a 65 anni suonati, nel 1956, a Nova milanese, in un percorso dedicato ai veterani.

Nel 1957 morì anche il suo secondo marito e, ancora una volta, si trovò veramente sola.

A 66 anni doveva accudire alla casa milanese di via Varesina dove era andata ad abitare e dove gestirein prima persona la bottega di riparazioni. Ogni giorno, per andare al lavoro, usava la sua vecchia bicicletta da corsa, indossando però un’abbondante gonna-pantalone.

Quando cominciò a sentirsi ancora più stanca comprò una Moto Guzzi 500.

Pare che per acquistare la motocicletta, di colore rosso, avesse venduto parte delle sue medaglie e dei suoi trofei.

La morte la colse … in strada.

Era il 13 settembre del 1959, aveva 68 anni. Era partita da casa molto presto, quella domenica, con la sua moto, per assistere alla famosa "Tre Valli Varesine" ed era rientrata a sera.

La solitudine le aveva rubato l'entusiasmo, ma non la voglia di vivere in mezzo al ciclismo. Alla portinaia aveva detto: «Ho passato proprio una bella giornata. Ora porto la moto in negozio e torno in bicicletta». Uscì. Cercò di avviare la Guzzi, ma senza riuscirci. Si issò più volte sulla leva di avviamento, scaricando tutto il suo peso sul piede che azionava l’apposito pedale di messa in marcia del motore. Era una procedura semplice, abitudinaria. D'un tratto la moto le sfuggì di mano, e lei le cadde sopra come volesse abbracciarla. La soccorsero, la caricarono su una macchina per portarla all'ospedale, ma quando arrivarono era già morta per una crisi cardiaca.

Andava in bicicletta da quando aveva 10 anni. A 68, ironia della sorte, se ne andò reclinando il capo su un manubrio.

***

18 de julio de 2011. - El nombre de nuestra diablita en bicicleta, según el registro civil, era «Alfonsa Rosa María Alfonsa, llamada Alfonsina» y nació en Emilia, más precisamente en Riolo di Castelfranco. Fue la segunda de diez hijos, los padres eran trabajadores agrícolas ("trabajadores informales del campo", diríamos hoy). El lugar donde vivió tenía un apodo ... muy descriptivo: Fossamarcia (fosa podrida). En esa época, vivir en el campo no era muy agradable: había tifoidea, tuberculosis, pelagra y mucha miseria, moral y material. Alfonsina creció en este ambiente, tenía un físico fuerte, pero carecía de educación. Para ella, como para muchos integrantes de la población local, el sueño era hacer fortuna en otro lugar, lejos de su tierra.

Un día, precisamente en 1901, Carlos —su papá— llegó a casa con una bicicleta. (estaba en tan malas condiciones que el dueño se había deshecho de ella, abandonándola en la calle). Dejó en claro de inmediato que no se trataba de un regalo para los hijos, sino de un medio de transporte para facilitar los viajes diarios —largos y arduos— entre la casa y el campo. Pero Alfonsina, que a los 10 años trabajaba ya como costurera, la empezó a usar en forma prácticamente exclusiva. En poco tiempo aprendió a utilizarla bien, a ir más rápido que muchos varones y, finalmente, a ganar las carreras locales (el trofeo más codiciado: un cerdo vivo). Las "dos ruedas" pronto se convirtieron para ella en una ocupación casi de tiempo completo. Se entrenaba con regularidad en la Vía Emilia, y frecuentemente desafiaba a otros ciclistas (hombres) en carreras improvisadas.

Sin darse cuenta, pero pagando por ello, descubrió el mensaje oculto de la bici: "En el ciclismo estás solo contra todos". Los primeros enfrentamientos fueron con la familia (que se avergonzaba de ella) y luego con los habitantes de su pueblo natal (que se burlaban).

Por lo tanto, Alfonsina decidió irse.

Cuando apenas tenía dieciséis años, abandonó el pueblo y su familia para correr en los velódromos de Turín y Milán, donde las carreras de mujeres atraían cada vez a más atletas y espectadores. Su fama creció de manera exponencial. Consiguió contratos en París, actuando como pistard(e) en el Parc des Princes y en el mítico Velódromo d'Hiver, y también corrió en Rusia en el Gran Premio de San Petersburgo (fue galardonada con una medalla por el Zar Nicolás II).

Todo esto en 1911, a los 20 años de edad. Se había convertido, diríamos hoy, en una verdadera ciclista profesional.

En sus fotografías antiguas y descoloridas, en blanco y negro, aparece en bicicleta, de pantalón corto, pequeña y musculosa, con el cabello corto y rebelde enmarcando un rostro gordito, siempre seria, con una ligera sonrisa apenas visible.

Conforme iban aumentando las retribuciones a a cambio de sus exhibiciones deportivas, Alfonsina ganaba cada vez mayor consideración y respeto por parte de opositores y empresarios. Sin embargo, ella siempre fue una especie de órgano extraño trasplantado en un mundo diseñado y construido sólo para hombres, un órgano en constante riesgo de rechazo. El "ciclismo profesional", como tal, era un ambiente poco recomendable (no sólo para una mujer), en el que los golpes bajos eran muy frecuentes y la fuerza física prevalecía sobre el talento, la habilidad y la técnica.

Imaginen el alivio de los padres cuando en 1915 —a los 24 años— Alfonsina se casó con el escultor-grabador Luigi Strada. Por desgracia, este alivio duró tanto como la famosa rosa de Malherbe, «l’espace d’un matin»: como regalo de bodas, Luigi, hombre moderno y sin inhibiciones, ¡regaló a su esposa una bicicleta de carreras nueva! Al año siguiente, la pareja se mudó a Milán y Luigi se convirtió en su entrenador. Ella, probablemente en señal de gratitud, siempre quiso ser llamada Strada y no Morini.

Corría (... también!) el año 1917. Para el 14 de noviembre, tan sólo 20 días después de la derrota de Caporetto (24 de octubre), estaba programado el 13° Giro di Lombardia. El problema, por supuesto, fue la falta de participantes. Los organizadores de la Gazzetta dello Sport, aceptaron por lo tanto la solicitud de Alfonsina, que pudo vivir su sueño de competir con los grandes campeones de la época, como —por ejemplo— los italianos Girardengo y Belloni, el belga Thijs y el francés Pellissier. Alfonsina terminó en el lugar 29 con 1 hora y 34 minutos de retraso con respecto al ganador Philippe Thijs que recorrió los 204 km a una velocidad promedio de 29.28 km/hora en 6 horas, 58 minutos y 2 segundos.

El fin de la guerra y la vuelta a la normalidad relegaron su papel de ciclista a un papel secundario. Los hombres regresaron a dominar el deporte y el ciclismo parecía poder vivir sin ella. Pero Alfonsina no se dio por vencida. Respaldada por una gran pasión y una inquebrantable confianza en sí misma, seguía participando en carreras de pista y carretera.

Su obstinación fue recompensada y pudo ser la única mujer en participar en el Giro de Italia de 1924. La carrera fue boicoteada por los equipos de mayor prestigio. Exigían que los organizadores aceptaran altas remuneraciones para los grandes campeones (Girardengo, Bottecchia, Brunero, etc. La Gazzetta dello Sport se negó, y admitió entonces que participaran corredores independientes ("individuales"). Por cierto, estos competidores, al no contar con apoyo económico, tuvieron que ser mantenidos por los organizadores: fueron enviados, desde Milán, 600 pollos, 750 kg de carne, 720 huevos, 300 kilogramos de galletas, 120 kg de chocolate, cientos de kilos de fruta, mermelada y agua.

La participación de Alfonsina, si bien era una buena ocasión para restaurar el interés en el evento, podría —por otro lado— desacreditar el Giro, haciéndolo parecer una especie de circo. Tal vez por esta razón no se mencionó entre los participantes hasta unas pocas horas antes del inicio, cuando en la Gazzetta apareció entre los corredores el nombre de "Alfonsin Strada". ¿Un error? Bueno, tal vez un truco de los organizadores que, al menos inicialmente, prefirieron no enfatizar la presencia de una mujer entre los competidores. El día del inicio, de todos modos, Alfonsina fue sumergida por una avalancha de burlas, quejas, amonestaciones y vulgaridades, verdaderamente de mal gusto. Baste mencionar, como ejemplo, la canción que le dedicó la revista Guerin Sportivo: «…No te desanimes, Alfonsina / si se te poncha una llanta seremos mil / los que quieran tapar el agujero…».

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