Artemisa Lomi Gentileschi,
la pittura del Caravaggio
al femminile

Donne d'Italia
Di Claudio Bosio.

Artemisa Lomi Gentileschi. Autoritratto come allegoria della Pittura, 1638-39.
 

14 gennaio 2011. - Nella Roma papalina di Clemente VIII (1536 –1605), 231º papa della Chiesa cattolica dal 1592 alla sua morte, la vita non doveva essere più di tanto facile e bella: gli abitanti erano all’incirca 100.000, in maggioranza uomini, tutti armati fino ai denti e pieni di bellicose intenzioni.

Un ambientino poco raccomandabile, molto simile, per intenderci, a quello del far west pioneristico di tanti film americani: armi, donnine, denaro.

Fra la gente a livello sociale comparativamente più alto, il denaro "girava" vorticosamente da una tasca all’altra: c’erano però delle … tasche privilegiate, dove i soldi andavano più spesso a finire, grazie ad una corruzione sistematica e dilagante. La criminalità, intensissima, la faceva franca nove volte su dieci. Infatti, in città, esistevano numerose zone franche cioè luoghi cosiddetti "intoccabili" (chiese, ce n’erano oltre 400, ospedali, ospizi, monasteri e i palazzi nobiliari ecc.) dove un qualsiasi criminale poteva rifugiarsi, sicuro di non poter essere arrestato. Agli "sbirri" [1], quindi, non restava che cogliere i colpevoli in flagranza di reato. Dovevano, pertanto essere rapidissimi negli spostamenti da un punto all'altro della città e piombare, in fretta e furia, addosso al ricercato senza che questi si fosse accorto della loro presenza.

A questo scopo, invece della tradizionale casacca rossa, indossavano, come una divisa, un tabarro nero, che li rendeva difficilmente visibili nelle pericolosissime notti romane.  

Il Papa, esponente della famiglia Aldobrandini, quando interveniva nelle questioni di politica interna (e si compiaceva di farlo direttamente, con ingiunzioni inflessibili: … placet motu proprio…) aveva la mano piuttosto pesante. La draconiana ingerenza papale è riscontrabile, ad esempio, nel caso di due celebri processi verificatisi sotto il suo pontificato: quello per eresia contro il filosofo Giordano Bruno, arso sul rogo, e quello contro la nobildonna Beatrice Cenci, decapitata per aver fatto uccidere il padre che l'aveva fatta oggetto di abusi sessuali.


Roma, 1641, Matthäus Merian.


Quanto alle "donnine" di ameni e facili costumi, per porre freno alla loro attività, il Pontefice aveva imposto il coprifuoco [2]. Tuttavia, delle mille e più cortigiane romane ben poche erano quelle che "battevano" la strada. La maggior parte di loro usciva tranquillamente dai propri quartieri per portarsi a svolgere il loro ben remunerato mestiere presso i tanti palazzi patrizi, dove partecipavano a feste ricchissime, dal sapore di orgia.

In questa turbolenta Roma degli inizi del XVII secolo, esercitava "la sublime arte della pittura" una giovane donna, dotata da madre natura di talento, bellezza, sensualità, carisma: Artemisia Lomi Gentileschi, [3] (15931653), nata a Roma, primogenita di Orazio (1563-1639), artista pisano trapiantato a Roma dal 1585, unica femmina di sette fratelli.

Per una donna di quell’epoca, dedicarsi alla pittura rappresentava una scelta non comune e difficile, ma non eccezionale. Infatti, prima di Artemisia, tra la fine del '500 e l'inizio del '600, si annoverano altre donne pittrici. Ad esempio, Sofonisba Anguissola (1530-1625) che fu chiamata in Spagna da Filippo II; Lavinia Fontana (1552- 1614) invitata a Roma da Clemente VIII, Fede Galizia (1578–1630) figlia di Nunzio, pittore trentino miniaturista, specializzata in nature morte.

Ma, in effetti, il mondo della pittura nel '600 era essenzialmente popolato da figure maschili. In pratica non esisteva un solo pittore professionista che avesse a bottega una ragazza. Alle donne "di garbo" era di norma richiesto di essere curate nel vestire e gentili nei modi, tutt’al più di coltivare una "gentil arte" (come il canto e la danza) o di saper suonare uno strumento musicale.

Non si può certo dire che Artemisia incarnasse tutte queste caratteristiche: era una donna molto avvenente ma dai modi ineleganti e trascurati. Alta, prosperosa, i capelli, sciolti sulle spalle, del "raro colore biondo delle donne di Pisa", (la famiglia era d’origine pisana) con un "che" d’interrogativo nello sguardo acceso, la carnagione radiosa, aveva un’unica passione, cui dedicava tutta se stessa: la pittura.

L’arte del dipingere era per lei una specie di ossessione: ad esempio, nella convinzione che il suo nome non fosse un puro suono, ma quasi l'anima di se stessa che lo portava ("nomen omen" - dicevano i latini - "il nome è un presagio") Artemisia lo amava scomporre in: «Arte / mi / sia / Gentil / esca».

Fu pittrice precoce: il suo primo lavoro "datato" (1611, a 18 anni) è la celeberrima "Giuditta che decapita Oloferne" (esposta alla Galleria degli Uffizi di Firenze) mentre nel 1616 (quando, a 23 anni, a si iscrisse all'Accademia del disegno di Firenze, prima donna nella sua storia) realizzò "Susanna e i vecchioni" [4], una delle sue opere più significative.

La tela di Giuditta e Oloferne, nella quale è raffigurata l’eroina biblica mentre, aiutata da un’ancella, decapita il generale dell’esercito di Nabucodonosor, venne dipinta, come già accennato, nel 1611, proprio quando Artemisia, diciottenne, stava rendendo testimonianza presso il tribunale dell’inquisizione di Roma, in relazione ad un grave misfatto di cui era stata vittima: lo stupro subito da parte di Agostino Tassi (1578-1644), un pittore, amico di famiglia, soprannominato lo Smargiasso. Il padre Orazio, che era venuto a sapere del "fattaccio" soltanto un anno dopo che era accaduto, aveva sporto denuncia scrivendo direttamente al Papa Paolo V.

L’accusa era chiara: "Di aver violentato Artemisia più e più volte". Nove mesi, per la precisione. Possibile? Ma come erano andate davvero le cose?

Questa la testimonianza di Artemisia al processo: "Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne."

Facendo riferimento al quadro che, come già detto, stava dipingendo proprio in quel periodo, c'è chi nel volto di Oloferne ha voluto individuare i lineamenti del violentatore, quell'Agostino Tassi, che dinanzi ai giudici in quei mesi la stava …. dipingendo come «una puttana» insinuando addirittura che «il padre la tenesse per moglie».

Ovvio che, dopo lo stupro, Agostino avesse promesso alla sua vittima un "matrimonio riparatore". A patto, però, del silenzio sull'accaduto, nella convinzione che, qualora non lo avesse denunciato subito, Artemisia non avrebbe più potuto parlarne al padre. C’era tuttavia un inghippo, che lo Smargiasso aveva sottaciuto: era già sposato (e nel frattempo manteneva anche una relazione con la quattordicenne sorella della moglie, cosa all'epoca considerata incestuosa).

Artemisia comunque portò avanti una relazione con lui (questione di onore o d’interesse?) finché non scoprì come stavano le cose. Poi raccontò tutto a Orazio, decisa a regolare i conti. Il processo intentato si protrarrà per vari mesi; Le udienze, di cui si sono conservati alcuni verbali, dimostrano quanto fosse difficile per una donna riuscire a far valere le proprie ragioni. Dalle pagine dei verbali giunte sino a noi, si evince, tra l’altro, come  i giudici parlassero in latino e gli inquisiti e i testimoni si esprimessero nell' italiano dei popolani romani.

Ci appaiono, tutti, come gentaglia volgare e rozza, usa ad un linguaggio crudo, per non dire postribolare (Artemisia stessa si esprime … senza metafore) gente per le quali vendetta, ruffianerie, crudeltà, bassezze sono parte integrante della loro vita quotidiana. In questo contesto, Agostino andava ….  A nozze: facile per lui, ad esempio, presentare falsi testimoni, disposti a dichiarare di essere già stati amanti della ragazza. Ma Artemisia non s'impaurì e non cedette. Dovette subire umilianti visite ginecologiche (in aula!) e seppe respingere con sdegno e con determinazione le infamanti menzogne e le odiose calunnie di cui era oggetto.  

Ma come potevano i Giudici fidarsi di quel che dice una donna?

In questi casi era la vittima a dover dimostrare il dolo: sarà pertanto la proclamata vittima a dover sottostare alla tortura che «proverà», o meno, la sua sincerità.

Fu quindi costretta a ripetere fino nei minimi dettagli gli eventi di cui si dichiarava vittima e infine fu obbligata a sottomettersi a una particolare macchina della verità, detta dei "sibilli". Le vennero cioè avvolti i pollici con delle cordicelle che venivano progressivamente tirate tanto da produrre atroci dolori. Sottoponendosi a questa tortura Artemisia rischiava lo schiacciamento dei pollici, che avrebbe potuto impedirle di usare le dita per sempre, una perdita irrecuperabile per una pittrice del suo talento.

Fu solo quando fu evidente che la ragazza non spostava di un millimetro la sua versione dei fatti, che i giudici si decisero a condannare il Tassi per "sverginamento".

Agostino Tassi venne condannato, ma a che cosa? Gli venne offerta una alternativa di pena: il bando da Roma o cinque anni in galera. Ovvio che lo Smargiasso scegliesse la prima condanna: anche perché sapeva bene che non nessuno si sarebbe preso la briga di controllare che la condanna fosse stata davvero eseguita, cioè che se ne sarebbe stato tranquillamente in esilio. Infatti non si mosse da Roma [5].

Intanto, a Roma, le malelingue diedero la stura ad una caterva di pettegolezzi sul processo, pettegolezzi che, veloci come una miccia, si trasformarono in vera e propria maldicenza. Correva voce che in realtà Orazio avesse costretto la figlia  a subire la vergogna di un processo-farsa, perché non voleva riconoscere a Tassi quanto gli era dovuto per la vendita di uno dei suoi quadri. Le vicissitudini processuali, quali l’umiliazione dell’interrogatorio che mise in dubbio l’integrità e la sincerità della ragazza, la visita medica sotto lo sguardo di tutti, erano state causate dal tradimento del padre che pensava solo alla sua pittura;

Artemisia, pur risultando "vittima di violenza carnale", si portò addosso per sempre un marchio infame ed infamante: anche quando tornò a Roma a distanza di anni, la gente la riconosceva come la  "puttana di Agostino".

Per sfuggire la vergogna di questa Roma, berciona, puritana e maschilista, Artemisia fu costretta a sposare uno sconosciuto; un uomo che aveva i suoi buoni motivi per accettare un matrimonio in questa circostanza e che la condusse in un’altra città: Firenze. Pierantonio Stiattesi, anch’egli pittore (assai modesto) e per fortuna di Artemisia anche un uomo giovane e di  bell’aspetto; Nonostante qualche momento di tenerezza e la nascita di una bambina, Palmira, il rapporto tra i due non fu mai facile, soprattutto perché per Pietro era difficile accettare che la moglie si rivelasse più brava di lui, e che avanti a lui fosse accettata alla prestigiosa Accademia del Disegno a Firenze come prima donna in assoluto nella storia.

La pittura di Artemisia, per sua fortuna, fu particolarmente apprezzata dalla granduchessa-madre Cristina e, ancor più,  dal Granduca Cosimo de Medici, un vero Mecenate, uomo aperto e innovativo, che non solo la protesse e la tutelò, ma la introdusse nell’ ambiente artistico.

Ormai, era riuscita a farsi apprezzare per i propri meriti, e non certo perché figlia di Orazio: addirittura l'ambasciatore fiorentino a Roma dissuase Cosimo II dall'invitare Orazio, descrivendolo poco capace e bizzarro. Inoltre, c’è da rilevare che, per far perdere le tracce di sé come la "pittrice dello stupro", Artemisia assunse il suo vero cognome di Lomi.

Sempre a Firenze, ebbe buoni rapporti con Galileo Galilei (giunto in città nel 1610 su invito di Cosimo II), con il quale rimase in contatto epistolare anche in seguito al suo periodo fiorentino. Tra i suoi più grandi estimatori va annoverato Michelangelo Buonarroti detto il Giovane (1568–1642), scrittore, nipote del più famoso omonimo, impegnato a costruire un palazzo che celebrasse la memoria dell'illustre antenato che le affidò l'esecuzione di una tela destinata a decorare il soffitto della galleria dei dipinti. L'amicizia con Michelangelo è testimoniata da numerose lettere della pittrice, che a Firenze doveva aver imparato a scrivere (se ne era dichiarata incapace in una testimonianza al processo). La tela in questione rappresenta una Allegoria dell'Inclinazione (ossia del talento naturale), raffigurata in forma di giovane donna ignuda che tiene in mano una bussola. Si ritiene che l'avvenente figura femminile abbia le fattezze della stessa Artemisia. Appartengono al periodo fiorentino la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella, di Palazzo Pitti.  

Nonostante il successo, a causa di spese eccessive, sue e di suo marito, il periodo fiorentino di Artemisia fu tormentato da problemi con i creditori. Si può quindi ragionevolmente collegare al desiderio di sfuggire all'assillo dei debiti ed alla non facile convivenza con lo Stiattesi, il suo ritorno a Roma che si realizzò in maniera definitiva nel 1621.

Artemisia si stabilì a Roma come donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di e di crescere le figlie. Oltre a Prudenzia (nata dal matrimonio con Pierantonio Stiattesi), aveva avuto, infatti, una figlia naturale, nata probabilmente nel 1627.

La Roma di quegli anni vedeva ancora una nutrita presenza di pittori caravaggeschi, ma Artemisia dimostrò di avere doti di notevole personalità pittorica, tanto da entrare a far parte dell'Accademia dei Desiosi. Tuttavia, il soggiorno romano non fu così ricco di commesse come Artemisia avrebbe desiderato. L'apprezzamento della sua pittura era forse circoscritto alla sua capacità di ritrattista e alla sua abilità di mettere in scena le eroine bibliche: le erano quindi precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale di altare.

Difficile, per l'assenza di fonti documentali, è seguire tutti gli spostamenti di Artemisia in questo periodo. È certo che tra il 1627 ed il 1630 si stabilì, forse alla ricerca di migliori commesse, a Venezia: lo documentano gli omaggi che ricevette da letterati della città lagunare che ne celebrarono le qualità di pittrice. Con l'avvertenza che la datazione delle opere di Artemisia è spesso terreno di contrasto tra i critici d'arte, sono verosimilmente da assegnare a questo periodo, il Ritratto di gonfaloniere, oggi a Bologna (unico esempio sinora noto di quella abilità di ritrattista per la quale Artemisia pure andava celebre); la Giuditta con la sua ancella oggi al Detroit Institute of Arts (che riflette la capacità della pittrice di padroneggiare gli effetti chiaroscurali del lume di candela); la Venere dormiente oggi a Princeton; la Ester ed Assuero del Metropolitan Museum of Art di New York (che testimonia la capacità di Artemisia di assimilare le lezioni luministiche veneziane).

Nel 1630 Artemisia si recò a Napoli, valutando che vi potessero essere, in quella città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti, nuove e più ricche possibilità di lavoro.

L'esordio artistico di Artemisia a Napoli è rappresentato forse dalla Annunciazione del Museo di Capodimonte. Poco più tardi, il trasferimento nella città partenopea fu definitivo e lì l'artista sarebbe rimasta, salvo la parentesi inglese e trasferimenti temporanei, per il resto della sua vita. Napoli fu dunque per Artemisia una sorta di seconda patria nella quale curò la propria famiglia (a Napoli maritò infatti, con appropriata dote, le sue due figlie), ricevette attestati di grande stima, fu in buoni rapporti con il viceré Duca d'Alcalá, ebbe rapporti di scambio alla pari con i maggiori artisti che vi erano presenti. A Napoli per la prima volta, Artemisia si trovò, a dipingere tele per una cattedrale, quelle dedicate alla Vita di San Gennaro a Pozzuoli. Sono del primo periodo napoletano opere quali la Nascita di San Giovanni Battista al Prado, Corisca e il satiro in collezione privata.

In queste opere Artemisia, dimostra ancora una volta, di sapere aggiornarsi sui gusti artistici del tempo e di sapersi cimentare con altri soggetti rispetto alle varie Giuditte, Susanne, Betsabee, Maddalene penitenti, per le quali pur continuava ad andar famosa.

Nel 1638 Artemisia raggiunse il padre a Londra, presso la corte di Carlo I [6], dove Orazio era diventato pittore di corte ed aveva ricevuto l'importante incarico della decorazione di un soffitto (allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti) nella Casa delle Delizie della regina Enrichetta Maria di Borbone, principessa di Francia, a Greenwick. Dopo tanto tempo, padre e figlia si ritrovarono legati da un rapporto di collaborazione artistica.

Carlo I era un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche, pur di soddisfare i suoi desideri artistici. La fama di Artemisia doveva averlo incuriosito, e non è un caso che nella sua collezione fosse presente la celebre e suggestiva tela di Artemisia l'Autoritratto in veste di Pittura.

inaspettatamente Orazio morì, assistito dalla figlia, nel 1639, a 76 anni.

Artemisia ebbe dunque a Londra una sua attività autonoma che continuò per un po' di tempo anche dopo la morte del padre (anche se non sono note opere attribuibili con certezza a questo periodo). Sappiamo che nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia aveva già lasciato l'Inghilterra.

Poco o nulla si sa degli spostamenti successivi.

È un fatto che nel 1649 la troviamo nuovamente a Napoli, in corrispondenza con il collezionista Don Antonio Ruffo di Sicilia che fu suo buon committente in questo secondo periodo napoletano.

Artemisia morì nell'anno 1653.

Per concludere, un breve accenno alle caratteristiche salienti della pittura di Artemisia, a buon diritto definita dalla critica come  «pittura del Caravaggio al femminile».

Gli elementi che la fanno in effetti avvicinare a Caravaggio sono il realismo, il colore e la luce.

Il realismo pittorico di Artemisia si rivela sia nella tendenza a rendere con grande veridicità e virtuosismo le superfici degli oggetti rappresentati. L'uso coreografico dei forti contrasti colorici, fra ombra e luce, sono  un altro aspetto della sua arte e corrispondono ad una doppia funzione di aumentare la drammaticità della composizione che per un significato simbolico di una luce divina rivelatrice.

Un’ultima osservazione: la violenza subita si riverbera in quasi tutte le opere di Artemisia, colme come sono di una forza che è vera e propria violenza. Questo è particolarmente palese nello stravolgente Giuditta che decapita Oloferne, dove si estrinseca una rabbia implacabile, una volontà di vendetta che si realizza nella faccia feroce e decisa di Giuditta; In un intenso luminismo caravaggesco, la protagonista afferra una spada con foga, e con altrettanta foga la passa sul collo di Oloferne.

Non si può, infine, sottacere la particolarità di Artemisia nel ritrarre se stessa, per esempio in Autoritratto come allegoria della pittura. In questo autoritratto, l’artista si mostra di profilo, con la testa inclinata, tutta intenta a carpire il soggetto. Non mostra il viso, ma soltanto se stessa nella posizione adatta a vedere, forse vedersi, una mano pronta a imprimere sulla tela probabilmente il viso che è il suo. Un’idea innovativa: non ripropone sé, ma se stessa mentre è intenta a scorgere o scorgersi. Da notare il titolo: Autoritratto come allegoria della pittura. Ed è lei la pittura: ecco dunque che si compie, passando oltre le tristi vicissitudini di vita che l’hanno marcata, il tentativo di ricostituire un’integrità, un’identità per sopravvivere. Lei è la pittura; e così può superare ciò che è stato il suo dramma esistenziale. L’arte che non è più estasi, ma diventa un nome e un corpo: Artemisia.

È in questo dipinto che si mostra tutta la sua determinazione ostinata: io sono la Pittura. Nessuno lo può negare. Nessuna onta né oltraggio possono farlo.

***

En la Roma papal de Clemente VIII (1536 -1605), 231º Papa de la Iglesia Católica desde 1592 hasta su muerte, la vida ya no era fácil y placentera: los habitantes eran unos 100 mil, en su mayoría hombres, todos armados hasta los dientes y con agresivas intenciones.

Un ambientito poco recomendable, muy similar, para entendernos, a muchas películas norteamericanas de cow boys: armas, mujeres y poco dinero.

Entre las personas de nivel social relativamente más alto, el dinero se movía rapidamente de un bolsillo a otro: había, sin embargo, bolsillos privilegiados, dónde el dinero iba a parar con mayor frecuencia, gracias a una corrupción sistemática y generalizada.

La criminalidad, intensísima, escapaba impune nueve de cada diez veces. De hecho, en la ciudad existían muchas zonas consideradas "intocables" (más de 400 iglesias, hospitales, asilos, conventos y palacios, etc.) donde los criminales podían refugiarse y estar seguros de que no iban a ser arrestados. A los "esbirros", entonces, no quedaba más alternativa que detener a los culpables en el acto. Por lo tanto, debían ser rapidísimos en los movimientos de un punto a otro de la ciudad y atrapara a los responsables sin que estos pudiesen notar su presencia.

Para ello, en lugar del abrigo rojo tradicional, llevaban como uniforme un manto negro, que dificultaba que fueran vistos en las peligrosas noches romanas.

El Papa, un miembro de la familia Aldobrandini, al intervenir en asuntos de política interna (y se alegraba al hacerlo directamente a través de órdenes inflexibles: "motu proprio placet"), era de mano bastante pesada. Su draconiana interferencia pueden notarse, por ejemplo, en dos conocidos juicios que ocurrieron bajo su pontificado: él de herejía contra el filósofo Giordano Bruno, quemado en la hoguera, y él de Beatrice Cenci, decapitada por haber matado a su padre que había abusado sexualmente de ella.

En cuanto a las "mujercitas" de "cascos ligeros", el Papa había impuesto un toque de queda [2] para frenar sus actividades lujuriosas. Sin embargo, eran muy pocas las cortesanas romanas que "taconeaban" por las calles. La mayoría de ellas salía tranquilamente de sus barrios para ir a llevar a cabo su bien remunerado trabajo en los muchos palacios de los patricios, en los que participaban en fiestas con sabor a orgía.

En esta turbulenta ciudad de principios del siglo XVII, ejercía "el sublime arte de la pintura" una mujer joven, dotada por la madre naturaleza de talento, belleza, sensualidad y carisma: Artemisia Lomi Gentileschi, [3] (1593-1653), nacida en Roma e hija mayor de Horacio (1563-1639), un artista originario de Pisa que se trasladó a Roma en 1585. Artemisia fue la única mujer de sus siete hijos.

Para una mujer de esa época, dedicarse a la pintura representaba una elección poco frecuente y difícil, mas no excepcional. De hecho, antes que Artemisia, a finales de los años '500, hubo otras mujeres pintoras. Por ejemplo, Sofonisba Anguissola (1530-1625) que fue invitada a España por Felipe II, Lavinia Fontana (1552 - 1614) invitada a Roma por el Papa Clemente VIII, Fede Galizia (1578-1630) hija de Nunzio, pintor miniaturista Trentino, que se especializó en naturalezas muertas.

Pero, en realidad, el mundo de la pintura en el '600 estaba poblado fundamentalmente por figuras masculinas. En la práctica no había ni un solo pintor profesional que tuviése una chica en su taller. A las mujeres "de gracia" por lo general se les requería vestir cuidadosamente y comportarse con propriedad, a lo mucho se acostumbraba que cultivasen algún "gentil arte" (como el canto o la danza) o fueran capaces de tocar algún instrumento musical.

Ciertamente no se puede decir que Artemisia encarnara todas estas características: era una mujer muy hermosa, pero poco elegante y descuidada en sus formas. Alta, con el cabello suelto sobre los hombros, "del poco común color rubio de las mujeres de Pisa" (su familia era originaria de la ciudad toscana) con un aire de interrogación en la mirada prendida, de tez iluminada y radiante, tenía una sola pasión, a la que dedicaba todo de sí misma: la pintura.

El arte de la pintura era para ella una especie de obsesión: por ejemplo, en la creencia de que su nombre no representase solamente un sonido, sino una especie de representación de su mismo ser como pintora ("nomen omen" - decían los latinos - "el nombre es un presagio"). Artemisia amaba descomponerlo en:"Que el Arte / sea / para mi / un gentil / atractivo".

Fue una pintora precoz: su primer trabajo —de 1611, a los 18 años— fue el famosísimo "Giuditta que asesina a Holofernes" (expuesto en la Galleria degli Uffizi de Florencia), mientras que en 1616 (cuando, a los 23 años, se inscribió en la Academia de Diseño de Florencia, siendo la primera mujer en la historia en lograrlo) creó "Susana y los ancianos" [4], una de sus obras más significativas.

La pintura de Judith y Holofernes, que representa a la heroína bíblica mientras, ayudada por una sirvienta, decapita al general del ejército de Nabucodonosor, fue pintada —como ya se mencionó— en 1611, justo cuando Artemisia —de dieciocho años— estaba atestiguando ante el tribunal de la Inquisición de Roma en relación con un delito grave del que fue víctima: la violación de parte de Agostino Tassi (1578-1644), un pintor, amigo de la familia, apodado "Smargiasso".

Su padre Horacio, quien se había enterado del hecho un año después de que ocurriera, había presentado una denuncia escribiendo directamente al Papa Paulo V.

Los cargos eran claros: "Violar a Artemisa una y otra vez", durante nueve meses, para ser precisos. Es posible? Pero, ¿Qué había pasado en realidad?

Este es el testimonio de Artemisia durante el proceso: "Cerró con llave la habitación y me aventó sobre el borde de la cama poniéndome una mano en el pecho, una rodilla entre mis muslos para que no pudiese cerrarlos y después de haberme levantado con muchísimo esfuerzo la ropa, me puso una mano en la garganta y un pañuelo en la boca para que no pudiese gritar. Dejó ir mis manos después de haber colocado ambas rodillas entre mis piernas, y apuntando su miembro a mi parte empujó y lo puso dentro. Le arañé la cara, le arranqué el cabello y antes de que me pudiese penetrar logré arrancarle también un pedazo de carne del miembro".


1 La parola "sbirro" deriva dal latino "birrum" che sta ad indicare una casacca di colore rosso. In epoca medioevale infatti le forze dell'ordine indossavano una mantella rossa, da cui l'appellativo.

2 Il "coprifuoco" è un ordine imposto dalle autorità, consistente nell'obbligo alla popolazione di restare nelle proprie abitazioni durante le ore notturne. L’origine della parola è connessa con il fatto che, in alcune città durante il Medioevo, al fine di prevenire gli incendi, veniva imposto lo spegnimento di ogni fuoco casalingo, lume o lanterna, durante la notte (da cui «coprire il fuoco») 

3 In realtà il suo vero cognome era Lomi. Infatti il padre Orazio, per distinguersi dal fratello Aurelio (anch’egli pittore),  aveva a suo tempo assunto il cognome materno Gentileschi.

4 Attualmente fa parte della Collezione Graf von Shönborn, Pommersfelden, e raffigura la storia di Susanna descritta nel libro di Daniele nell’Antico Testamento, una matrona bellissima, vista e desiderata da due vecchi che spiavano frequentemente la sua casa. Un giorno, la donna decise di fare il bagno nel suo giardino e mandò le ancelle a cercare olio e balsamo. Non appena le ancelle furono lontane i vecchi si avvicinarono a Susanna chiedendole dei favori sessuali e minacciandola, in caso di rifiuto, di dichiarare che l’avevano vista con un giovane amante. La donna li respinse e i due la calunniarono. Daniele interrogò i vecchi separatamente in modo da confrontare le versioni dei fatti. In effetti, i dettagli forniti dai due non coincidevano, così Daniele comprese la loro menzogna e li condannò a morte. Susanna, che non aveva ceduto alle richieste dei vecchi, divenne il simbolo della fedeltà coniugale, della castità e della virtù. La rappresentazione di Susanna sorpresa ignuda dai vecchioni ha apparentemente intenti moralistici, ma è spesso un pretesto per soddisfare la "pruderie" di committenti, specie del '500 e del '600, che si compiacciono di soggetti di nudo femminile. 

5 Incredibile ma vero: in seguito Agostino ed Orazio Gentileschi si riavvicinarono, dimenticando l'accaduto. A quanto pare, la soglia di tolleranza della violenza sulle donne (figlie comprese!)  era assai bassa nella società del tempo... 

6 Carlo I Stuart (1600-649), re d'Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia sostenitore del diritto divino dei re, fu impegnato in una dura lotta di potere contro il Parlamento che gli si oppose risolutamente, temendo le sue aspirazioni assolutistiche, soprattutto nel tentativo di riscuotere le tasse senza l'assenso del Parlamento. Altra causa di attrito con una parte della società inglese fu la sua politica religiosa: perseverando nel "sentiero intermedio" della Chiesa anglicana, fu accusato di essere troppo vicino al cattolicesimo. Le tensioni politiche e religiose accumulate nel corso degli anni esplosero nella Guerra civile inglese: contro di lui si scontrarono le forze del Parlamento e dei Puritani, ostili alle sue politiche religiose. La guerra si concluse con una disfatta per Carlo, che fu catturato, processato, condannato e decapitato con l'accusa di alto tradimento. La monarchia fu abolita e fu stabilita al suo posto una repubblica, che però, morto il principale leader della rivoluzione, Oliver Cromwell, entrò rapidamente in crisi, consentendo al figlio di Carlo, Carlo II di restaurare la monarchia. Carlo I viene venerato come santo dalla Chiesa anglicana, che lo ricorda il 30 gennaio. Fu un grande mecenate: egli amò l'arte a tal punto da far divenire la sua collezione una delle più ricche ed ammirate d'Europa. Era un grande conoscitore in particolare del Rinascimento italiano: il suo pittore favorito era Tiziano, di cui possedeva numerose tele, acquistate dai suoi commissari a Venezia.. Alla sua corte c'erano numerosi artisti, fra i quali l'artista fiammingo Antoon van Dyck, che divenne il pittore ritrattista ufficiale di del regno. Dopo l'esecuzione capitale del re, la sua collezione venne smembrata. Numerosi pezzi furono messi in vendita, altri preferì conservarli Cromwell per le sue stanze. I maggiori compratori della fortuna artistica di Carlo furono il cardinale Giulio Mazzarino, la cui raccolta confluirà in quella di Luigi XIV, ed il re di Spagna Filippo IV.

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«Co'l dipinger la faccia a questo e a quello
nel mondo m'acquistai merto infinito;

[…] Gentil'esca de cori a chi vedermi poteva,

sempre fui nel cieco Mondo;
Hor, che tra questi marmi mi nascondo,

sono fatta Gentil'esca de vermi
».

 Giovan Francesco Loredano e Pietro Michiele

Epitaffio Venezia, 1653