A tavola con ... le posate
Storie di un medioevo misconosciuto e “Luminoso”.
Di Claudio Bosio.

26 febbraio 2009. - Il Medioevo, in genere, richiama mentalmente l’immagine di un periodo “buio”, arretrato e improduttivo, lugubre e retrivo. In realtà, a quest’epoca così vilipesa (durata dal 476 d.C., anno in cui Odoacre depone l’ultimo Imperatore romano d’Occidente, Romolo Augusto, al 1492 anno della scoperta dell’America) “dobbiamo” una quantità impressionante d’invenzioni, spesso misconosciute ma assolutamente ragguardevoli: gli occhiali (grazie a fra’ Alessandro della Spina, 1300 circa; anche il Petrarca portava i «dischi per gli occhi»), lo zero e i numeri arabi (grazie a “fì Bonacci”, cioè il figlio di Bonaccio, meglio noto come Leonardo Fibonacci (1170-1245), che divulgò l’uso di quelle strane cifre, nonostante il pregiudizio che le stesse, inventate dagli infedeli, potevano recare offesa alla religione) la carta (ottenuta dalla macerazione degli stracci) la filigrana (innovazione utilissima per riconoscere le banconote false, ottenuta inserendo nell’impasto della carta un disegno formato da un sottile filo metallico) il libro (i Romani scrivevano su fogli di papiro avvolti in grossi rotoli, da cui il termine volumen, da volvere, arrotolare) la stampa a caratteri mobili (i libri stampati dal 1455, in cui fu edita la “Bibbia” di Gutenberg, sino al 1500, sono detti incunaboli perché corrispondenti al tempo in cui la stampa era in fasce, con riferimento alle fasce dei neonati che in latino sono dette «incunabola») l’Università, la Banca, il Monte di Pietà («Monti di Prestanze») i Notai, le note e la scala musicale (grazie al monaco benedettino Guido d’Arezzo, 995-1050, che considerò la prima sillaba di ciascun verso di un inno a San Giovanni: «UT queant laxis REsinare libris MIra gestorum FAmuli quorum SOLve polputi LAbii reatum Sancte Joannes!» cioè: Affinché i tuoi servi cantino con corde libere la meraviglia delle tue azioni, allontana il peccato, o Santo Giovanni, dalle loro labbra indegne).

E, ancora, l’anestesia (miscele d’oppio, mandragora, giusquiamo, cicuta, con cui venivano impregnate delle spugnette, «spongiae somniferae», per stordire i pazienti durante interventi operatori) le carte da gioco, gli scacchi (originari dell’India del VI secolo, subirono in Europa numerose modifiche: rimasero invariati i pezzi corrispondenti al Re, al Cavallo e ai Pedoni. L’Ualfil, ossia l’elefante, divenne …uomo e cioè Alfiere, in italiano, Fou, pazzo, in francese e Bishop, vescovo, in inglese. Il Rucb, cammello, tradotto in latino Rochus si trasformò in Torre. Il Fers, il visir, mutò sesso e divenne Fiers, ossia la Vergine, la Regina)….

Ma non basta: al Medioevo siamo tributari dei bottoni, delle mutande (chiamate anche «panni da gamba», note ma osteggiate dai Romani in quanto indumento proprio dei Barbari) e dei pantaloni (una specie di attillate “calze suolate”, per riparare le quali bisognava far ricorso ad un artigiano detto appunto “calzolaio”).

Ci ha “portato in casa” i vetri (non proprio … trasparenti) alle finestre (al posto della tela cerata o dell’anta di legno) ed il camino (sconosciuto ai Romani, che per il riscaldamento domestico dovevano accontentarsi del braciere) ed anche il gatto (“addomesticato”, appunto, perché debellatore del temibile “ratto nero”, e perché divenuto di gran moda dopo il rientro dei Crociati dalla Siria, all’epoca detta Sorìa, da cui soriano).

Ci ha regalato la pasta (vermicelli e maccheroni), ha trasformato il cavallo avendo “scoperto” l’uso del collare rigido, per cui l’animale poteva “tirare” senza venir soffocato dal peso del proprio traino, della staffa (sconosciuta ai Romani) e dei ferri agli zoccoli.

Il celeberrimo Riccardo Cuor di Leone,1157-1189 (un Re d’Inghilterra che parlava solo francese!) in partenza per la Crociata, chiese gli venissero forgiati 50.000 ferri da cavallo.

Oltre all’umile, utilissima carriola, il Medioevo ci ha regalato l’orologio a scappamento(1) e le ore di lunghezza uguale (e non più dipendenti dalle stagioni). Gli orologi originariamente erano piazzati sul campanile. Nei primissimi orologi pubblici era il quadrante a ruotare intorno ad una sola lancetta fissa. Anche con l’avvento del quadrante fisso, funzionava solo la lancetta delle ore. Comunque, anche i “nuovi modelli” sgarravano di circa un’ora al giorno. Gli “orioli”, come li chiama Dante, passarono quindi sulla Torre Comunale (metà del ‘300). Spesso non avevano né quadranti né lancette: si limitavano a battere le ore, con rintocchi simili alle campane. Da qui il termine inglese clock, orologio, il tedesco Glocke e il francese cloche, campana.

Fra gli altri regali del Medioevo vanno ricordati il timone e la bussola (da buxus, bosso, e da buxula, cassetta, da cui si deduce che la bussola era contenuta in una piccola scatola di legno di bosso). La leggenda vuole che sia stata inventata dall’amalfitano Flavio Gioia, un esimio signore …. mai esistito! Tutto ebbe origine da uno scritto del filologo bolognese Giambattista Pio, che, nel 1511, riportò quanto era stato detto circa la bussola dallo storico Flavio Biondo (1392-1463), in questo modo: «Amalphi in Campania veteri magnetis usus inventus a Flavio traditur». Affermazione che venne resa in volgare: Ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della calamita, da Flavio si dice. Lo scrittore intendeva dire “Flavio lo dice” ponendo una virgola dopo inventus . Invece, in seguito, qualcuno, nel riportare la notizia, spostò la virgola e la frase divenne: “Ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della calamita, da Flavio, si dice” intendendo quindi che Flavio (Biondo) avesse inventato la bussola. Ma non finisce qui. Secondo quanto ebbe in seguito ad affermare lo storico napoletano Scipione Gazzella (1586-1601) Flavio sarebbe nato a Gioia, in Puglia, ma avrebbe inventato la bussola ad Amalfi, dove si era trasferito. Qualcuno, in questo guazzabuglio, ebbe a fare un po’ di … confusione, per cui Flavio Biondo, forlivese, divenne, chissà come, Flavio Gioia, amalfitano. Ad Amalfi, fino a non molti anni fa, c’era ancora il monumento a Flavio Gioia, emerito «padre della bussola» in realtà mai esistito, nato per l’errore di una virgola!

Ma c’è un retaggio quasi incredibile dovuto al Medioevo: proprio in quest’epoca considerata bigotta e bacchettona, i Teologi hanno fatto sorgere un terzo regno nell’Aldilà, il Purgatorio, scardinando, per così dire, l’eterna immutabilità dell’«opposto destino» dei defunti, Inferno o Paradiso.

Per finire ….in bellezza, fra le tante altre novità cui ormai abbiamo fatto l’abitudine, ricordiamo che proprio il Medioevo ci ha fatto SEDERE A TAVOLA (i Romani, si sa, mangiavano sdraiati) e ci ha abituati all’uso delle POSATE, inventando la FORCHETTA.

Le dita sono state per millenni le “posate reali”, come ancora sosteneva il Re Sole, Luigi XIV (1638-1715): al tempo dei Greci, popolo civile per eccellenza, non veniva sentito alcun bisogno di servirsi di posate, in quanto i cibi erano posti già sminuzzati davanti al commensale, e la mano destra era l'unico "strumento" usato. Il problema dei cibi caldi veniva affrontato "temprando con l'esercizio le dita" alla scottatura. Infatti, tra una portata e l'altra le mani erano nettate con abluzioni di acqua profumata, anche perchè nelle corti e nelle case aristocratiche c'era abbondanza di servitori, coppieri, mescitori e ancelle (Ulisse ne aveva cinquanta!) che provvedevano a tutte le esigenze dei commensali. Per quanto riguarda i Romani, anche Ovidio (43-18 a.C.) prescriveva l’impiego delle tre dita (pollice, indice e medio) della mano destra. Ai banchetti romani più ricchi e raffinati, i commensali usavano per altro dei cucchiai di servizio detti ramaioli e dei ditali per evitare di sporcarsi e di ustionarsi. Potevano, in alternativa, pulirsi le mani durante il pasto, usando una speciale “farinata”. Disponevano inoltre di un tovagliolo e di uno “sciacquadita”, e di coltelli per incidere le carni. Questa situazione venne gradatamente a cambiare nel Medioevo, epoca in cui, tutti seduti a tavola anche se non proprio comodamente, si seguitava, comunque, ad attingere il cibo da grandi piatti comuni usando il coltello, di proprietà personale del commensale, solo per dividere i pezzi più grossi. (Va rilevato come tutti i piatti fossero serviti a tavola contemporaneamente) Le carni venivano per lo più spolpate con i denti: le ossa e gli avanzi si gettavano dietro le spalle per cani e servi.

Nel Medioevo l’ospite forniva, di solito, piatti, cucchiaio e tovaglia, ed un boccale ogni due commensali (per questo era considerato molto importante pulirsi la bocca prima di bere!). Tovaglioli e saliere erano un indice della ricchezza e della magnanimità del padrone di casa. La mensa (2) veniva per lo più allestita dove tornava più comodo, per esempio davanti al camino, durante l’inverno. I commensali sedevano da un solo lato della tavola, per ricevere dall'altro lato le vivande. Lungo le tavole stavano disposte le sedie, riservate ai personaggi più illustri e le panche con schienali e cuscini per i personaggi di minor riguardo. Solo per i banchetti più sontuosi ogni coperto era corredato da una coppa, un coltello ed un cucchiaio in quanto, per la maggior parte, il coltello, come già accennato, era quello personale dell'invitato. In occasioni del tutto eccezionali gli ospiti erano forniti anche di un piatto singolo, cosa che normalmente era sostituita da fette di pane spesso alcuni centimetri o da focacce non lievitate che poi, condite dall'unto dei cibi, venivano usate nella zuppa dalla servitù, o distribuite ai poveri. Un cucchiaio permetteva di sorbire dalle scodelle le zuppe e le salse mentre con i coltelli si tagliava la carne in piccoli bocconi.

Le mense medioevali riservavano di norma due corredi particolari al Signore (o al Re):

    un bacile che ne conteneva le suppellettili conviviali personali (gli altri portavano il proprio coltello con il quale servivano anche le dame);

    una piccola credenza, la cui chiave era gelosamente custodita da un dignitario, che conteneva sostanze magiche utili per saggiare se le vivande destinate al Signore erano avvelenate.

Al Signore venivano riservati i piatti più ricchi e le pietanze più rare; a lui era riservata una coppa (protetta da un coperchio per evitare eventuali addizioni di veleno!), quando gli altri commensali bevevano in bicchieri scoperti e senza gambo. I commensali erano sistemati in genere su più tavoli accostati, disposti ad U, e avevano di fronte a sé una varietà di piatti dai quali potevano prendere ciò che preferivano in relazione ai propri gusti personali e al proprio stato. Ad esempio un esponente del clero avrebbe dovuto mangiare con sobrietà, un duca meno del suo signore, una donna con più eleganza rispetto al padre o al marito. La tovaglia (dal franco thwahlja, panno per asciugarsi) più pesante ricadeva quasi fino a terra, mentre quella più leggera e più corta serviva ai commensali per asciugarsi la bocca e le mani, non essendo in uso il tovagliolo personale. Terminate tutte le portate del primo servizio si sostituivano le tovaglie macchiate e veniva presentato il secondo servizio; così fino a conclusione del banchetto.

In realtà, le prime posate comparvero sulla tavola in epoca romana, suggerite dalla passione per cibi adatti a stuzzicare l'appetito come ostriche, molluschi e frutti di mare.

Questi arnesi erano di due tipi, con fattezze simili all'odierno cucchiaio:

    il primo detto "ligula" (da lingua), aveva la pala ovale e il manico dritto o curvo, e lo si usava per dispensare le preziose salse di cui la cucina Romana era prodiga.

    il secondo chiamato "cochlear", da cochlea (chiocciola) forse perché il primo rudimentale cucchiaio fu una conchiglia. Aveva la pala rotonda e piatta, e il manico dritto e appuntito, veniva utilizzato per scalzare il frutto dalla conchiglia e portarlo alla bocca, o per consumare le uova crude (con la punta si apriva il guscio e con la pala si sorbiva il contenuto).

Il cucchiaio, ovviamente, trae la sua forma da quella della mano chiusa a coppa per raccogliere l'acqua della fonte. Per migliaia di anni è stato fabbricato in legno, sovente profumato, come il ginepro, il bosso. Va ricordato come i primi cucchiai in legno fossero molto grossi e rotondeggianti e quindi non potessero “entrare” in bocca. Pertanto, il liquido del cucchiaio poteva soltanto essere (rumorosamente!) aspirato.

Nel Medioevo questa posata subisce una lieve trasformazione, arrotondandosi alquanto e crescendo di dimensioni, perchè il cucchiaio era spesso usato come fosse un piccolo mestolo, prendendolo con ambo le mani per portarlo alla bocca, poggiando i gomiti sulla tavola. Alla ricca tavola medioevale il cucchiaio non si usava che raramente. Essendo le portate essenzialmente a base di carne, l’etichetta voleva che ognuno scegliesse “alla fonte” il pezzo di carne che più gli era gradito e lo immergesse nella salsa “comune” prima di portarlo alla bocca con le dita. Quanto alle zuppe e alle minestre, i manuali di buona creanza del secolo XII prevedevano di portarle alla bocca mediante un cucchiaio “comune”: assolutamente disdicevole era considerato il berle direttamente dalla zuppiera posta in tavola. (A pensarci bene, il cucchiaio non era un arnese per ricchi, ma per povera gente, costretta, per indigenza, a cibarsi per lo più di zuppe di verdure). Un uso particolare del cucchiaio è riportato da Microbio, il quale descrivendo un menù completo del IV sec. ci dice che a quell'epoca comparve un cucchiaio speciale: il "cyathus" (capacità mezzo litro) utilizzato per versare il vino nelle coppe durante la parte finale del convivio.

Anche il coltello ( dal lat. cultellus, diminutivo di culter = lama dell’aratro) ha una lunga storia. Il coltello piccolo, per uso in senso «domestico», differenziato dal coltello per altri impieghi, pare sia stato portato dai «barbari» invasori. Esso si diffonde parallelamente all’uso di tagliare le carni sul piatto. Ma la sua crescente fortuna è connessa anche al declino dell’abitudine di infilzare i cibi con la punta della lama per prenderli e portarli alla bocca. Tale declino è in buona parte legato all’imporsi della forchetta. Il coltello è stato per molto tempo un oggetto personale che l’ospite non era tenuto a fornire. Nel Medioevo si portava il coltello “alla cintura”, in un fodero di cuoio la cui forma variava secondo le stagioni. In seguito in tale fodero si cominciarono a portare anche cucchiai e poi forchette: si trattava dunque, a quanto pare, di una dotazione prevalentemente maschile. E rigorosamente individuale. (Se la parola italiana «posate» viene da «posare» e fa dunque riferimento al fatto che si tratta di oggetti messi sulla tavola, nell’area tedesca il termine corrispondente «besteck» in origine designava il fodero del coltello da tavola) Esisteva una gran varietà di coltelli: per tagliare la carne, per disossare i volatili, per rompere le noci ecc. C’erano poi, svariatissimi, i “coltelli per pane” usati per tagliare il pane a fette sottili piuttosto che in grossi pezzi. Il manico del coltello da tavola, cambiava di colore a seconda dell’anno liturgico: era, ovviamente, nero durante la Quaresima, bianco a Pasqua, mezzo bianco e mezzo nero (grigio?) nel periodo di Pentecoste. Bisognava prendersi una gran cura del proprio coltello: affilarlo, mantenerlo pulito e usarlo soltanto come suppellettile da tavola.

I coltelli medioevali da tavola erano molto affilati ed avevano una punta acuminata che serviva anche per prendere il cibo già tagliato, quando non era ancora in uso la forchetta.

La punta arrotondata dei coltelli da tavola divenne “obbligatoria” il 13 maggio 1610, su specifica ordinanza del Cardinale Richelieu, disgustato di avere alla sua mensa dei …. Gentiluomini che si pulivano i denti con la punta dei loro coltelli.

Ad ogni buon conto, non si sa “quando” con precisione, durante i banchetti medioevali, invece di usare la punta del coltello o le dita per portare i cibi solidi alla bocca, si diffuse la consuetudine di utilizzare una nuova posata: la forchetta.

L’uso di questo utensile, dapprima elitario, si generalizzò di pari passo con il diffondersi di un cibo tipicamente medievale che diverrà il pilastro della cucina italiana, la pasta, risultando infatti lo strumento adatto per infilzare quel cibo caldo e scivoloso: «Maccaruni blanki di symula e lasagni di simula».

Codice delle leggi longobarde

Le prime attestazioni iconografiche della forchetta sono reperibili in una miniatura del Codice delle leggi longobarde (inizio XI secolo) che mostra il rude re Rotari che brandisce una forchetta mentre mangia con i suoi Dignitari. Invece nell'Ultima Cena leonardesca (1495-1498) dove ci aspetteremmo di trovarla, non la vediamo rappresentata.

Eppure in epoca altomedievale l'uso della forchetta creava a volte uno scandaloso scalpore. Il banchetto per le nozze tra la principessa, figlia diciassettenne dell’imperatore bizantino Cristiano IX, Maria Argyropoula, detta Argira e il figlio del doge di Venezia, Giovanni Orseolo II, celebrate nel 955, è forse la prima occasione in cui su una tavola dell’Europa occidentale comparve tale posata. Mentre tutti mangiavano con le mani la raffinata principessa usava infatti una forchetta. Questo fatto suscitò un tale clamore scandalizzato che di lì a poco si trasformò in aperta condanna da parte della Chiesa per la “bizzarra e decadente” principessa bizantina. Cosicché quando nel 1005 la sfortunata giovane si ammalò di peste e ne morì, nobili e popolani veneziani s'inventarono che ciò era la punizione divina per tanta aberrante e oltraggiosa perversione conviviale, frutto certo di peccaminose propensioni derivatele dalle male usanze della corte Bizantina. Gli uomini di Chiesa ritennero la forchetta strumento di mollezza e perversione diabolica. San Pier Damiani (1007-1072) non ebbe alcuna pietà per la povera principessa: «Non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena portandoli alla bocca con forchette d'oro a due rebbi»; la terribile morte della giovane donna, le cui carni andarono lentamente in cancrena («corpus eius computruit») fu vista come una giusta punizione divina per un così grande peccato!
Anche un’altra principessa bizantina, Teodora Ducas, sorella dell’imperatore Michele VII, moglie del Doge Domenico Silvio, che la sposò nel 1071, si serviva a tavola di "fuscinulis aureis bidentibus", una forchettina d'oro a due rebbi con la quale portava alla bocca il cibo che alcuni servi personali, eunuchi, sporzionavano in piccole parti,

Il papa Innocenzo III, quando era ancora Lotario dei Conti di Segni (1160-1216), nel suo “De miseria humanae condicionis” fece calare l'ombra cupa della morte su un lungo catalogo di delizie che comprende anche l’uso della forchetta: Cosa c'è di più vano che ornare la mensa con tovaglie decorate, con coltelli dal manico d'avorio, con vasi d'oro, con ciotole d'argento, con coppe e bicchieri, crateri e catini, con scodelle e cucchiai, con forchette e saliere, con bacili e orci, con scatole e ventagli? [...] Sta scritto infatti: «Quando l'uomo morirà non porterà con sé nulla di tutto ciò, e la sua gloria non scenderà con lui»….

Forse perché associate al mondo bizantino, nella situazione di tensione creatasi con lo scisma tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa di Roma (1054) le forchette verranno presentate dal clero cattolico come simbolo del demonio e il loro uso sarà bollato come peccato, tanto che sino al ‘700, non sarà ammesso nei conventi e nei monasteri.

Tale stigma peserà per secoli: ancora nel ‘600, quando in Italia il loro uso è ormai frequente, Monteverdi (1567-1643) ogni volta che, per buona educazione, è costretto a impiegarle, fa dire tre messe per espiare il peccato commesso.

C’è poco da meravigliarsi: fino al 1897, ai marinai della Royal Navy di Sua Maestà britannica era proibito l’uso di coltelli e di forchette, in quanto si riteneva fossero «pregiudizievoli alla disciplina e al comportamento virile».

 


(1) Lo scappamento è un sistema meccanico che negli orologi a pendolo traduce il movimento oscillatorio in rotazione di un ingranaggio. Lo scappamento, in assenza del quale gli ingranaggi ruoterebbero velocemente fino a “scaricarsi”, provoca un avanzamento passo a passo degli ingranaggi, liberando periodicamente i denti di una ruota ad ogni oscillazione del pendolo. È questo scatto periodico a produrre il classico ticchettio degli orologi.

(2) Mensa = Originariamente era il nome di un dolce sacro, sul quale si disponevano le offerte agli Dei. In seguito, passò ad indicare la “tavola” sulla quale detto dolce era posto. Quando l’Arpia maledisse Enea, profetizzò per l’eroe e i suoi compagni «tanta fame che addenterete anche le mense»; I compagni del figlio di Venere mangiarono dunque le più antiche …. pizze della storia, intrise dei succhi e dei resti dei cibi che su di esse erano stati posati per essere tagliati.