Claudio Abbado: "E Toscanini
mi disse: tu avrai successo"

Il grande direttore s’interroga: cos’è il talento?

25 ottobre 2008. - Il talento è una straordinaria fortuna che, una volta riconosciuta, hai il dovere di amare e di non sprecare. Il talento è un’avventura mistica, non il traguardo di una carriera, che devi riuscire a vivere con semplicità e ironia, senza mai sentirti prigioniero delle sue seduzioni. Ecco perché, per esempio, non amo i limiti, i confini, le barriere...». È una tiepida giornata in Sardegna, il maestro Claudio Abbado è nel suo buen retiro - una casa bassa e spartana, coperta dalla macchia mediterranea - a pochi chilometri da Alghero. «Qui studio, leggo, ascolto musica. Faccio il giardiniere, ho piantato più di 9 mila piante. Vivo nell’acqua e nel verde e trovo il tempo per riflettere», spiega Abbado al giornalista-scrittore Antonio Galdo. Convinto che nella società dell’opulenza, oltre alle risorse naturali, «sciupiamo anche corpi e anime», Galdo, autore del saggio Non sprecare, è riuscito, tra gli altri, a incontrare un personaggio tanto celebre quanto schivo come Abbado per parlare di talento, di come lo si riconosce e come lo si coltiva senza sprecarlo.

Nella quiete della sua bianca stanza di lavoro affacciata sul mare (alle pareti riproduzioni di Klimt e Schiele; una scrivania di legno, libri, appunti, partiture) Abbado ha così ripercorso lo spartito della sua vita, dall’infanzia alla fortunata prova davanti a Toscanini, dai travagliati rapporti con Riccardo Muti alla sua malattia.

Fil rouge, secondo Abbado, «non restare schiacciato nell’autocompiacimento e riuscire anche a ridere di me stesso. Alla fine del Falstaff si dice “tutto nel mondo è burla”. È il testamento di un saggio, al quale mi sento molto legato. Per me, il primo contatto con il talento è stato come una folgorazione, come la scena di un miracolo». Accadde una sera alla Scala, a un concerto di musiche di Debussy; Abbado aveva solo 7 anni e la musica nel Dna (il padre Michelangelo, piemontese d’origine araba, era professore di violino, la madre Linuzza dava lezioni di piano). «Pensai: ecco il sogno che spero di realizzare. Un pensiero che, da allora, mi ha accompagnato per tutta la vita».

Educazione al talento. Nelle lunghe passeggiate sulle montagne valdostane con suo nonno materno, Guglielmo Savagnone, un eclettico intellettuale siciliano, Abbado dice di aver imparato con l’importanza del silenzio anche la capacità di saper ascoltare. A 15 anni (per 500 lire a concerto) già suona l’organo nelle chiese milanesi: la sua passione è Bach. «Vai avanti, non ti scoraggiare mai», lo sprona sua madre, una donna generosa che rischia assai nascondendo ebrei e partigiani; suo padre, invece, è un uomo severo che affronta con angoscia ma senza mai perdere la dignità l’ombra nera della povertà. «Aveva il culto dello studio, voleva che restassi sui libri anche fino alle 2 di notte... Non amavo questa situazione, e invece, crescendo gli sono stato molto riconoscente. Mi ha trasmesso il senso della disciplina e della ricerca. Con lui ho imparato a lavorare duramente: qualsiasi talento, per non sprecarlo, ha bisogno innanzitutto di metodo». Dalle tante passioni, alla selezione delle attitudini: «decisi di studiare direzione d’orchestra, pianoforte e composizione al Conservatorio Verdi». La prima dura prova, a casa di Arturo Toscanini: il giovane Abbado suona Bach. «Con quegli occhi azzurri e penetranti, mi fece i complimenti: “Avrai molto successo", mi sussurrò». Di quel giorno Abbado ricorda il suo stupore davanti all’autoritarismo di Toscanini: «Urlava, insultava i musicisti che non eseguivano al millimetro le sue indicazioni». «Non saprei mai guidare un’orchestra con questi metodi», pensò. «Invece, durante quelle prove, colsi l’importanza, l’essenzialità dello sguardo. Il direttore ha solo gli occhi e le mani per comunicare, e sono decisivi per realizzare il magnetismo con l’orchestra».

Abbado narra ancora della sua lunga, straordinaria avventura tra teatri e orchestre e dei suoi vent’anni al vertice della Scala, in una Milano vitale, accanto a un organizzatore culturale della competenza di Paolo Grassi: «Aprimmo le porte e le finestre del teatro, senza preconcetti... Rinnovammo il repertorio e portammo a Milano direttori, musicisti e artisti da tutto il mondo»: Karl Bohm e Herbert von Karajan, Carlos Kleiber e Leonard Bernstein. Manca però il nome di Riccardo Muti. «È una telenovela costruita sui giornali, c’erano stati Coppi e Bartali, la Callas e la Tebaldi, e dunque bisognava creare il conflitto tra Abbado e Muti - sostiene Abbado -. La verità è un’altra e oggi posso dirla con la massima serenità. Da direttore artistico invitai Riccardo a lavorare insieme, anche a dividere gli spazi. E invece Muti voleva un suo teatro da dirigere. Compresi l’obiezione, e qualche anno dopo, quando accettai la proposta che mi arrivò da Vienna, Riccardo prese il mio posto alla Scala».

Da Milano alla Staatsoper di Vienna fino alla guida, ai tempi della caduta del muro, dei Berliner. Tra tanti trionfi e riconoscimenti nella vita del maestro, all’improvviso arriva una diagnosi terribile: cancro allo stomaco. «Un colpo terribile», ricorda Abbado. E nel libro di Antonio Galdo svela: «Ho sempre creduto di farcela, sono sempre stato convinto di iniziare una nuova vita, con nuove idee, anche quando mi hanno portato via lo stomaco... Ha presente gli asceti? Per loro lo stomaco non conta nulla, anzi è un ingombro che non aiuta a concentrarsi. Per me è stata la stessa cosa, ho cercato di aggrapparmi ai lati positivi della mia malattia... Ho perso 17 chili e ho trovato le forze per andare avanti». L’ultimo tempo non prevede più tournée o incarichi fissi ma è dedicato allo studio e alle letture. Senza rimpianti: «La malattia mi ha fatto vedere con più chiarezza la gerarchia delle cose - dice -. La mia voglia di ricercare nuove frontiere, aprire nuove vie, non si è esaurita. E così proseguo la mia costante ricerca per scoprire e valorizzare il talento». Nell’Italia in declino si alza la voce di Claudio Abbado: «Abbiamo i talenti, ma ci mancano l’organizzazione e la trasparenza, così non riusciamo neanche a riconoscerli - è l’amaro j’accuse di Claudio Abbado - Non selezioniamo gli interventi pubblici, non sosteniamo le cose veramente importanti, sprechiamo risorse e siamo soffocati da una televisione che trascura troppo la cultura. Così rischiamo di diventare un enorme museo all’aperto, ricco di tesori culturali unici al mondo e prosciugato nelle sue risorse umane».

 

(La Stampa.it)