«Pace e musica»: adesso i ragazzi
di Woodstock sognano la pensione
Quarant'anni fa il raduno che rivoluzionò musica e costume.
L'idea di cambiare il mondo è tramontata, ma lo spirito dei giorni di Bethel non è morto.

Il nuovo centro per le arti a Bethel Woods, costruito nella zona del raduno di 40 anni fa.

 

15 agosto 2009. - «Tutto nella mia vita e in quella di tanti della mia generazione è rimasto attaccato a quel treno», ha detto Richie Havens, il chitarrista che il 15 agosto di 40 anni fa, con la sua «Freedom», inaugurò Woodstock, un’adunata rock senza precedenti per l’America: un concerto lungo tre giorni sotto una pioggia battente davanti a quasi mezzo milioni di giovani che uscirono trasformati da quell’esperienza.

Un treno di desideri evaporati e speranze infrante che ha perso quasi tutti i suoi pezzi per strada. Eppure per molti ragazzi della generazione del «baby boom», che celebrano l’anniversario di quello straordinario raduno insieme al loro sessantesimo compleanno — gente che da tempo non pensa più a come cambiare il mondo e che ora si preoccupa soprattutto di andare in pensione con un assegno decente — lo spirito della «Woodstock Nation» non è mai morto.

La sera del 10 agosto ha cercato di evocarlo proprio Havens in un concerto qui a Bethel, nell’area della fattoria dell’allevatore Max Yasgur dove 40 anni fa si esibirono Jimi Hendrix e Joan Baez, Janis Joplin e Joe Cocker, Who, Santana, Jefferson Airplane e tanti altri gruppi: un palcoscenico costruito in fretta e furia davanti a un prato con la forma di un anfiteatro naturale perché le autorità di Woodstock e Middletown, 50 chilometri più a ovest, all’ultimo momento si rifiutarono di ospitare l’evento.

Oggi quella fattoria, acquistata da un imprenditore delle televisioni locali, è diventata un museo dedicato alla storia del concerto e alla cultura degli anni Sessanta. Luogo di pellegrinaggio di ex hippy e scolaresche, il museo — una costruzione di legno con a fianco un piccolo auditorium e un grande anfiteatro all’aperto che può ospitare fino a 15 mila persone tra platea e prato — è stato costruito a una certa distanza dal luogo dove sorgeva il palcoscenico («per non disturbare gli spiriti di Woodstock», dicono le guide del museo). Il campo che ospitò la folla oceanica in parte è tornato prato, in parte è coperto da un parcheggio.

È qui che si continua a coltivare il mito, anche se stavolta non sono stati trovati i fondi per organizzare un megaconcerto a New York come quelli delle precedenti celebrazioni. Ma le librerie sono affollate di volumi rievocativi, le mostre fotografiche si susseguono in varie città, le riedizioni di documentari e registrazioni musicali non si contano e a giorni arriverà nei cinema americani un nuovo film di Ang Lee dedicato all’evento.

Eppure della cultura hippy «love & peace» di allora rimangono ormai poche tracce e quel festival, analizzato al microscopio, conteneva tutti gli ingredienti per un clamoroso insuccesso: caos organizzativo, ingorghi mostruosi, tempo inclemente, la pressoché totale assenza di strutture igieniche e sanitarie, i ragazzi che arrivavano portando con sé più scorte di droga che di cibo.

Artisti come Hendrix che, pieni di «acido», ebbero alti e bassi, altri che continuarono a litigare fino all’ultimo con gli organizzatori per ottenere più soldi nonostante il concerto fosse ormai divenuto, davanti all’enorme afflusso di gente, un evento gratuito.

Quando il cronista del New York Times Barnard Collier cominciò a mandare i suoi racconti di un evento incredibilmente ordinato e pacifico, i capi del giornale e lo stesso direttore James Reston si infuriarono, spiegandogli che il tono degli articoli doveva essere quello dell’incombente catastrofe provocata da una folla di drogati che si rotolavano nel fango e negli escrementi. Collier tenne duro e alla fine, dopo aver pubblicato un editoriale contro il concerto, il «Times» cambiò rotta, riconoscendo che a Woodstock era successo qualcosa di nuovo e importante.

Molta droga e sesso libero sì, niente cibo e condizioni sanitarie disastrose, certo. Ma anche un evento colossale, svoltosi in condizioni di estremo disagio, che era filato via liscio, senza incidenti, in un’era molto violenta: un’epoca di scontri razziali, con gli idoli dei giovani — Robert Kennedy e Martin Luther King — appena uccisi, la guerra nel Vietnam, i disordini alla convention democratica dell’anno prima, concerti che finivano spesso in rissa e l’America scioccata dallo «hippismo criminale» della setta di Charles Manson che una settimana prima di Woodstock aveva fatto strage in California, assassinando Sharon Tate e altri sette in un rito folle.

Sul prato di Bethel, nei «Tre giorni di pace e musica» che divennero il titolo di un film-documentario che fece conoscere Woodstock al mondo e vinse un Oscar, evaporò la rabbia di una generazione piena di contraddizioni. Ragazzi che avevano rifiutato il materialismo, dopo essere sprofondati nell’abbondanza di un’America che accumulava ricchezza a una velocità mai vista prima. Che non riuscivano a dialogare coi loro genitori. Che si sentivano minoranza oppressa e marginalizzata.

Una giornalista ha raccontato sul «Washington Post» la sua frustrazione di allora: una «figlia dei fiori» pronta a immergersi nel rito di Bethel, ma costretta, per non perdere il posto, a rinunciare e a recarsi al lavoro dove, come da usanze dell’epoca, era tenuta a presentarsi in camicia, gonna e calze, visto che nel suo ufficio le donne non potevano indossare pantaloni.

La controcultura hippy esplose come una bomba in quel vecchio mondo, ma rimase un fenomeno velleitario, frammentato. Fino a quando, proprio dopo Woodstock, un’intera generazione si convinse che, se quasi mezzo milione di ragazzi sbandati erano riusciti a gestire un evento così complesso senza incidenti (a Woodstock nacquero due bambini e morirono due ragazzi: uno per overdose, l’altro ucciso da un trattore mentre dormiva arrotolato in una coperta), gli eredi della Beat Generation di Jack Kerouac e Allen Ginsberg potevano aspirare a un loro spazio nella società.

A contaminarla con la loro cultura della pace e anche con il loro edonismo. Quella di poter diventare forza di governo in nome della non violenza era un’illusione, come ha dimostrato la storia dei decenni successivi. Ma Woodstock fu davvero un momento di svolta: un curioso matrimonio tra capitalismo (Woodstock Venture, la società costituita allora dai quattro organizzatori per ricavare profitti dal concerto, esiste ancora e continua a garantire ai fondatori lauti guadagni) e una cultura hippy che nel prato di Bethel trovò la sua identità culturale, le sue icone, i suoi inni.

Era l’alba della «Age of Aquarius». Ma quel sole non salì mai alto nel cielo. La consapevolezza di sé del popolo di Woodstock portò alla «istituzionalizzazione» della controcultura del tempo. «Lì lo "hippismo" raggiunse il suo apice, ma divenne anche vulnerabile alle imitazioni e alle trivializzazioni che trasformarono lo spirito ribelle di una generazione in puro dato stilistico» ha scritto Jon Pareles, un celebre critico che nel ’69 a Woodstock c’era. Anche il sogno della non violenza svanì presto. Poche settimane dopo ad Altamont un concerto dei Rolling Stones finì in tragedia, con disordini gravissimi e gli Hell’s Angels, assunti come servizio d’ordine, che picchiarono senza pietà gli spettatori più esagitati e ne uccisero uno a pugnalate.

Ma per i viaggiatori del treno di Woodstock tenere viva la speranza è rimasto un modo per restare giovani. E per non perdere il contatto con i figli. Che infatti, secondo un recente rapporto del Pew Research Center, vivono il rapporto con gli adulti senza le dure contrapposizioni di allora. «Qui a Bethel — dicono i curatori del museo — sono loro i più curiosi, i più affascinati dalla ribellione dei ragazzi di 40 anni fa», una sorta di «Internet generation» senza Internet. E senza nemmeno il telefonino.

 

(Massimo Gaggi / corriere.it)