In italiano "Elogio della gentilezza" è edito dalla casa Ponte alle Grazie.
In inglese può trovarsi su Amazon con il titolo originale "On Kindness".

 

Elogio della gentilezza
Un libro per chi si è rassegnato a vivere in un mondo
di automi dallo sguardo vuoto.

Elogio della gentilezza, un libro di cui si ha bisogno.

 

10 luglio 2009. - “Un indicatore della salute mentale - scriveva lo psicoanalista e pediatra Donald Winnicott nel 1970 - è la capacità di un individuo di entrare in forma immaginativa e in maniera accurata, nei pensieri, nei sentimenti, nelle speranze e nelle paure di un’altra persona; e anche di concedere a un’altra persona di fare la stessa cosa con lui”. Si tratta di un concetto innovatore che mette l’empatia (e le sue distorsioni) al centro della vita psichica dell’individuo. Empatia, simpatia, altruismo, benevolenza, umanità, gentilezza d’animo, indicano una vasta gamma di sentimenti che hanno a che fare con l’attenzione verso l’altro, il prendersi cura dell’altro, il sentire le emozioni e i sentimenti dell’altro.

Il saggio “Elogio della gentilezza” (Ed. Ponte Alle Grazie), scritto a quattro mani dallo psicoanalista Adam Phillips, gia primario di Psicoterapia infantile al Charing Cross Hospital di Londra, e dalla storica Barbara Taylor, focalizza l’attenzione sulla gentilezza, elaborando una visione laica, scevra da sentimentalismi, idealizzazioni o moralismi, come arte (e fatica) quotidiana di ascoltare ed accogliere la vulnerabilità altrui (ed anche la propria), rimandando al valore profondo dell’appartenenza reciproca. Dipendiamo gli uni dagli altri non tanto (o non solo) per la nostra sopravvivenza, quanto per il nostro essere vero e proprio, sostengono i due autori. In questa visione la gentilezza è molto più di un fragile ponte che collega due entità separate, il sé e l’altro; diviene caratteristica di un sé sociale, relazionale, plasmato dalle mutue relazioni con l’altro.

Tutti (o quasi tutti) siamo capaci di atti di gentilezza occasionali. Ci donano una sottile ed intensa gratificazione, come un piacere proibito. Tuttavia ne siamo al contempo estremamente disturbati. Non riusciamo ad essere mai così generosi come vorremmo, ma niente ci ferisce più di una gentilezza non ricevuta. “La generosità assorbe molti dei nostri pensieri e tuttavia la gran parte di noi è incapace di vivere una vita che vi si ispiri” - osservano gli autori.

 

 

 

Pur tuttavia la gentilezza, nella maggior parte dei casi, è un’opzione temporanea, delegata ad esprimersi pienamente in figure femminili (prima di tutto le madri), o in personaggi in odore di santità. Perché, nonostante sia contagiosa, come il riso o il pianto, si scontra con tali resistenze interiori che ne smorzano il flusso spontaneo, fino a riuscire talvolta ad annullarlo? Perché genera perfino sospetto, diffidenza? Come e quando abbiamo perso la fiducia nell’altro, al punto di credere che la generosità ci impedirà di avere successo nella vita o che vi siano piaceri più grandi della generosità, e perché la maggior parte di noi pensa che in definitiva siamo tutti pazzi, cattivi e pericolosi, in competizione per qualsiasi cosa valga la pena di possedere?

Gli interrogativi si intrecciano: la gentilezza rappresenta una forma di egoismo mascherato o una fragile barriera protettiva contro l’aggressività altrui (sarò gentile con te così tu non potrai farmi del male), o una virtù dei deboli? Le forme quasi automatiche in cui rispondiamo alle emozioni dell’altro, in particolare alla sofferenza, come la mimesi (osserviamo l’espressione di un altro e la imitiamo) o l’associazione diretta (i segnali della situazione della vittima attivano nello spettatore ricordi di esperienze simili che egli ha vissuto in passato, suscitando in lui emozioni corrispondenti), fanno pensare ad una base biologica dell’empatia che è passata al vaglio della selezione naturale, diventando parte integrante della natura umana. Nella sua forma più matura l’empatia è capacità immaginativa, rappresentazione mentale dell’altro, cui corrisponde un notevole impegno cognitivo. Al contrario, l’egoismo può essere interpretato come una mancanza di immaginazione così grave da costituire una minaccia non tanto per la nostra felicità quanto per la nostra salute mentale.

Se esistono dunque tante prove a sostegno che la vita vissuta nell’istintiva identificazione simpatetica con gli altri sia la vita che siamo più inclini a vivere, dove nascono le contraddizioni e i paradossi della gentilezza? I due autori approdano ad una spiegazione : “I gesti gentili dimostrano in maniera lampante che siamo animali vulnerabili e dipendenti, la cui risorsa migliore risiede in quello che possiamo essere gli uni per gli altri. La capacità o l’istinto della generosità possono essere attivamente e incosciamente sabotati da quella parte di noi che teme l’intimità e peraltro la alimenta”.

Come aveva intuito Rousseau, la storia della gentilezza d’animo cammina di pari passo alla storia dell’infanzia dell’individuo, di un “sé” che si costituisce e si organizza nel contesto dei legami di attaccamento con le figure significative, che porta a sviluppare una amorevolezza che includa l’ambivalenza che caratterizza le relazioni umane. “La generosità reale non è un trucchetto magico, un incantesimo che fa sparire ogni impulso di odio e aggressività a tutto vantaggio di una dedizione spassionata agli altri - concludono gli autori. E ancora: “La generosità è un aprirsi agli altri, che, per dirla con Rousseau, ci espande, e così gratifica la nostra natura profondamente sociale”.

 

ROSALBA MICELI.

 

(La Stampa.it)