La foto che cambiò la storia del pop

Londra, l’8 agosto di quarant’anni fa Iain Stewart Macmillan  scattò l’istantanea
per la copertina dell’album dei Beatles: e fu subito mito.

La famosa foto di Iain McMillan.

 

1 agosto 2009. - Quarant’anni fa, esattamente l’8 agosto 1969, un certo Iain Stewart Macmillan salì su una scala a pioli nel mezzo di una via senza storia di Londra nord e fotografò quattro tizi su un passaggio pedonale. Uno dei quattro era scalzo; un altro tutto vestito di bianco.

Nella foto finirono un maggiolino Volkswagen (bianco anche quello, targa LMV 281F) e un turista di passaggio (Paul Cole, americano, vacuamente ignaro di quel che stava succedendo). L’intera operazione durò dieci minuti. La Emi aveva bisogno della copertina per un disco e, visto che quella era l’idea di riserva, davvero non c’era più tempo.

Il Piano A, se l’ellepì si fosse intitolato Everest com’era stato ipotizzato a un certo punto, dalla marca di sigarette del tecnico del suono Geoff Emerick, avrebbe previsto una trasferta in Tibet. Ma, visto che dopotutto si sarebbe chiamato Abbey Road, bastava scendere per strada e scattare. Così nacque una delle foto più celebri e imitate del ventesimo secolo.

I quattro erano «i Quattro» per antonomasia e la ragione per cui finora non li abbiamo chiamati per nome è la medesima che, all’epoca, quel nome non fece esplicitare sulla copertina del disco. Che si trattasse dei Beatles sarebbe stato chiaro a chiunque nell’orbe terracqueo.

Quello che nessuno poteva sapere (nessuno a parte i Fab Four, i loro intimi e il produttore George Martin) era che il gruppo era finito, over, kaputt; e che Abbey Road sarebbe stato il canto del cigno. D’accordo, ancora sarebbe toccato, nel maggio dell’anno seguente, all’esangue Let It Be: che però avrebbe contenuto brani registrati in precedenza e che per buona parte è da considerarsi un live.

La magia di Abbey Road sta appunto in questo: è un capolavoro, ha venduto 12 milioni di copie, eppure i membri della band che lo realizzò nemmeno più si parlavano se non tramite avvocati. John era perso in una nuvola di eroina, Yoko Ono e pacifismo, George sperimentava per conto proprio con il moog e la musica indiana, Paul si era scontrato selvaggiamente con gli altri tre sulla scelta del nuovo management della loro etichetta, la Apple.

La capacità mediatrice di Ringo, da sempre l’elemento pacificatore, non poteva che ritrarsi nella propria quiete stuporosa (o nel proprio giardino dei polipi, l’Octopus’s Garden del brano che scrisse e che finì nell’album, ricordo di una vacanza in Sardegna con la famiglia).

Infatti le canzoni, come scrive il critico Steve Turner, «parlano di negoziazioni legali, di debiti non pagati, di fregature, di cattivo karma e, in generale, di quanta fatica si faccia a portare sulle proprie spalle il fardello del mondo. Ce n’era anche una fintamente allegra che parlava di un martello d’argento (quello di Maxwell) pronto a calarti pesantemente addosso non appena le cose cominciano ad andare un po’ meglio». Ma c’erano anche l’incipit felpato di Come Together, la voce di Paul in Oh! Darling mai tanto bella e studiata, i vertici harrisoniani di Something e di Here Comes The Sun (tutti e due nello stesso album, e se non è un miracolo questo).

C’è, soprattutto, quello che in sala di registrazione era The Long One e che per i beatlesiani è ormai The Medley, serpentone sinfonico fatto di otto brani, che in 16 minuti ti fa planare vertiginosamente da You Never Give Me Your Money (eccoli, i litigi finanziari) a The End (mai ci fu fine più fine di questa, neppure quella dei Doors può competere) e in mezzo è una babele psichedelica di ragazze che entravano dalla finestra e Pam di polietilene, di re soli e di malvagi signor mostarda, di sogni d’oro e di pesi malsopportati.

Occorre accennare poi alla leggenda urbana sulla morte di Paul, a cui ha appena ridato fiato un articolo dell’edizione italiana di Wired: ecco il perché, esultarono i dietrologi, di quello stilizzato corteo funebre (in testa il sacerdote officiante vestito di bianco, in mezzo il morto senza scarpe e dal passo disarmonizzato rispetto a quello degli altri) e della targa d’automobile: 28 come gli anni che McCartney avrebbe avuto «se fosse stato vivo». Già, 28: i Beatles finirono di essere i Beatles prima di compiere i trent’anni. Se ne andarono però in grande stile, con un opus terminale.

Nel quale riuscirono a sintetizzare come meglio non si sarebbe potuto la fine di un’epoca, che forse l’innocenza aveva già perduto ma che purtroppo si accingeva a perdere anche il genio fiorito dell’utopia. L’epigrafe tombale se la scelsero da soli, e fu meravigliosa: «And in the end, the love you take is equal to the love you make».

 

(La Stampa)