Orrore sulle colline

«Qui non si può stare»
«Me ne vado subito È disabitata?» dissi «Qui non si può stare»

Mi trovai davanti un vecchio contadino con pochi denti e un cappello di paglia sulla testa.

«Qui non ci si può stare» disse con aria seccata, masticando uno stecchino. Era basso e magro, con un occhio velato di bianco, ma stava piantato in terra come un giovane balilla. La sua camicia di lana giallognola era tagliata in verticale da due larghe bretelle rosse. Feci un sorriso accomodante.

«Abito qua sotto... Ho visto il cancello aperto e...».

«No no, qui non ci si può stare».

«Me ne vado subito. È disabitata?» dissi, indicando la villa.

«Qui non ci si può stare» disse ancora, scuotendo la testa. S’incamminò verso il cancello invitandomi a seguirlo.

«Conosco la signora Rondanini» dissi andandogli dietro.

«Qui non ci si può stare». Era la quarta volta che lo diceva.

«Ci abita qualcuno?».

«È proprietà privata» disse lui. Quella variazione mi fece piacere.

«Sa che qualche giorno fa ho sentito delle voc...».

«Qui non ci si può stare» m’interruppe lui, senza voltarsi.

«Non facevo nulla di male» mi giustificai. Uscimmo dal cancello. Lui lo riaccostò con cura e si voltò a guardarmi. Doveva essere quell’Alfiero che veniva a tagliare l’erba e a ramazzare le foglie.

«Qui non ci si può stare». Sesta volta. Non era più una frase, era un muro di mattoni. Aspettò che mi avviassi sul viottolo, poi se ne andò dalla parte opposta e sparì dietro l’angolo del muro. Lo salutai alzando il medio e continuai a camminare verso casa. Basta. Volevo sgombrare la testa dalle stronzate e scrivere fino a notte fonda. Non ero venuto fino quassù per baloccarmi con i fantasmi o per sentirmi dire Qui non ci si può stare. Se almeno mi avesse telefonato Camilla...

Mangiai qualcosa, seduto a tavola davanti alla tv. Dopo il caffè mi piazzai davanti al computer. Pagina vuota, con il cursore che pulsava. Sentivo il romanzo agitarsi sottoterra, ma non riuscivo ancora a farlo uscire. Lo lasciai perdere. Aprii il file Tragedia e mi misi a correggere le pagine che avevo già scritto. Aggiunsi anche altri particolari, qualcosa inventai, e alla fine venne fuori una specie di raccontino. Lo rilessi. Faceva un certo effetto, e soprattutto mi sembrava che l'avesse scritto un’altra persona. Ma quello più o meno mi succedeva ogni volta. Chiusi il file e mi alzai per sgranchirmi le gambe. Mi bruciavano un po’ gli occhi. Andai in bagno a sciacquarmi il viso e mi guardai allo specchio. Non ero poi così male... Come mai la dottoressa non telefonava? Tornai in camera e mi sedetti di nuovo davanti al computer. Non avevo mai scritto nulla sui lupi mannari, forse era arrivato il momento. Aprii un nuovo documento e scrissi il titolo, Orrore sulle colline. Andai avanti a scrivere tutto il pomeriggio, sperando che da un momento all'altro squillasse il telefono e fosse Camilla.

Alle nove avevo riempito quasi dieci pagine. Ancora non capivo se era spazzatura o roba buona, ma avevo lavorato sodo e sentivo il bisogno di distrarmi. La dottoressa non aveva chiamato. Peggio per lei. Uscii con la macchina e andai a bere una birra alla Casa del Popolo di Fontenera, uno stanzone triste illuminato dai neon. Sul tetto avevo visto un palo di ferro che sosteneva una grande e nostalgica stella rossa.

Stavo appoggiato al banco come Clint, e sorseggiando la birra mi guardavo intorno. Un gruppetto di contadini stava discutendo di calcio, bicchiere alla mano. Quattro vecchietti giocavano a carte in un angolo, seduti a un tavolino di formica azzurra. Dei ragazzini che non avevo mai visto stavano addosso a un videogame come fosse stata una donna nuda. Era tutto come mi aspettavo, come doveva essere una Casa del Popolo. Questo mi tranquillizzava. A conti fatti Fontenera era un paese normale. I mariti al bar e le mogli a casa con i bambini. La vecchia Italia con le sue solide tradizioni contadine.

Si aprì la porta e apparve un tipo vestito di pelle nera, con i capelli lunghi e radi. Non lo avevo mai visto. Doveva aver passato i quaranta da un pezzo. Avanzava camminando come un cowboy. Lo salutarono tutti, anche i vecchietti. Sentii che lo chiamavano Nero. Si sedette su uno sgabello a un metro da me e ordinò una birra. Emanava un forte odore di selvatico. Arrivò la sua birra e vuotò mezzo bicchiere in un sorso. Soffocò un rutto, poi mi guardò. Aveva due rughe profonde intorno alla bocca.

«Sei nuovo, eh?» disse.

«Sì».

«Quant’è che stai in zona?».

«Più o meno un mese».

«Pensi di restare molto?».

«Ancora un paio di mesi, credo».

«Ti piace qui?».

«Molto».

«È una merda».

«Perché?».

«Tutte queste colline qua intorno... belle sono belle, accidenti alle loro mamme maiale... ma non si trova una fica nemmeno a scavare in terra» e cacciò una bestemmia.

«E magari ci sono pure i lupi mannari» buttai lì.

«Quelli non mancano da nessuna parte, stanno negli uffici pubblici a mettere timbri».

«Parole sante».
«Voi forestieri venite quassù pensando al paradiso... i vigneti, gli olivi, l'olio bono... non ne sapete un cazzo del troiaio che...». Lasciò la frase in sospeso e bevve un sorso.

«Quale troiaio?».

«Benvenuto al manicomio» disse il Nero sorridendo, e sulla sua faccia spuntarono altre rughe.

«Perché manicomio?».

«Stacci un po’ e lo vedrai da solo». Finì la birra in un sorso, con gli occhi che brillavano di sottintesi. Se ne andò alzando una mano in aria e tutti risposero al saluto. Non mi sembrava di averlo visto pagare. Faceva il suo effetto, il Nero. Era nato nel posto sbagliato. Avrebbe meritato di sognare in qualche metropoli, magari con una chitarraccia in mano. Invece la sua vita era fatta di bestemmie e di Casa del Popolo. Non sarei mai riuscito a comunicare con lui, ma mi era piaciuto. Bevvi l’ultimo sorso di birra e m’incamminai verso l’uscita, cercando di imitare il passo da cowboy del Nero. Non era male. Si poteva sognare anche in una frazione sperduta in mezzo alle colline. Prima di uscire alzai anch'io una mano in aria, ma non mi salutò nessuno.

Appena entrai in casa sentii un brivido di freddo, e andai ad accendere la caldaia. Mi ero piegato al gasolio. Mangiai un po’ di prosciutto guardando un film che non riuscii a seguire. Dopo la frutta accesi il fuoco e portai il computer in cucina. Volevo lavorare ancora. Riempii un bicchiere di vino, mi feci una canna piuttosto carica e continuai a scrivere.

A un certo punto mi arenai. Lasciai da parte Orrore sulle colline e mi collegai a Internet attaccandomi alla presa di cucina. Per curiosità andai su Google, scrissi fra virgolette «lupo mannaro» e cliccai su cerca. 77.700 pagine. Quasi tutte parlavano di libri o di film, ma trovai anche qualche antica fiaba francese o brasiliana e alcuni siti in cui si spiegava l'origine della leggenda. Tornai su Google e accanto a «lupo mannaro» aggiunsi «fontenera». Nessun risultato. Spensi il computer, mi sdraiai a letto e aprii il libro che stavo leggendo, Il borgomastro di Fournes. A momenti in mezzo alla pagina vedevo gli occhi di Franco che mi fissavano con ironia.

Mi svegliai di soprassalto per colpa di un rumore, e dopo qualche secondo capii che stavano bussando alla porta. Le nove e dieci. Non immaginavo chi potesse essere... anche se speravo assurdamente che fosse Camilla, folle d’amore.

(Continua)
 


 

(La Stampa.it)