Il giustiziere
di Fontenera

Di Marco Vichi

Che ha fatto?» dissi, fingendomi preoccupato. Ovviamente avevo salvato le foto sul drive USB, che per sicurezza avevo lasciato a casa... e non certo per difenderle da un carabiniere.

«Le ho cancellate. Anche dal cestino» fece lui, soddisfatto.

«Con che diritto?» dissi, alzandomi di nuovo in piedi.

«Se ha fatto delle copie le consiglio di consegnarmi anche quelle. Non voglio che si metta nei guai, Bettazzi».
«Se in questo paese c’è ancora una bava di giustizia, non sono io a essere nei guai».

«Non mi ha risposto. Ha fatto delle copie?».

«LEI HA DISTRUTTO LA PROVA DI UN GRAVE REATO!» urlai con gli occhi tondi. Dovevo fingere di essere molto arrabbiato, e mi riusciva bene.

Simulai anche un lieve tremito alla mascella.

«Si sieda, la prego. E parli più piano per favore».

«LE FACCIO PRESENTE CHE STA PROTEGGENDO UN MAIALE!».

«Si sieda e parliamo con calma». Ci fissavamo come due lupi. Ma era meglio non esagerare, e dopo qualche secondo mi rimisi a sedere.

Bussarono alla porta. La maniglia si abbassò ma la porta era chiusa a chiave.

«Tutto bene, maresciallo?» disse Schiavo, un po’ allarmato.

«Tutto a posto, vai pure». L’appuntato se ne andò. Il maresciallo si accese una sigaretta e buttò fuori il fumo con calma.

«Mi dà la sua parola che non ci sono altre copie?».

«Purtroppo non le ho fatte, è contento?». Fingevo di contenere a stento la rabbia.

«Il dottor Fallani ha fatto e continua a fare del gran bene a questo paese, e se...».

«Però violenta una minorata di quindici anni» lo interruppi.

«Non violenta nessuno».

«A questo punto mi viene da pensare che lei sapesse tutto...».

«Non dica coglionate».

«Mi dispiace, non riesco a farne a meno».

«Lei vede le cose solo con i suoi occhi...».

«Soprattutto non credo alle mie orecchie, maresciallo».

«Anche a quella povera ragazza fa del bene, il dottor Fallani».

«Lei parla così perché non è sua figlia». Lo vidi serrare le mascelle.

«Mi ascolti bene, Bettazzi. Sono anni che il dottor Fallani mantiene la madre di quella poveretta. Senza di lui mamma e figlia ruberebbero il becchime ai polli».

«Sto per mettermi a piangere...».

«Che lei ci creda o no il dottor Fallani è un benefattore. Aiuta molte famiglie povere, raccomanda i figli dei contadini che si diplomano, finanzia la filarmonica, costruisce case popolari, devolve molto denaro per...».

«Sembra un documentario sulle origini di Cosa Nostra».

«Non dica sempre coglionate, Bettazzi».

«Mi sbaglio con la ‘ndrangheta?».

«Vedo che non vuole capire...».

«Vorrei, le assicuro». Non dovevo dimenticare la porta chiusa a chiave. Sequestro di persona. Avrei potuto trascinare in tribunale anche lui.

Il maresciallo fece una lunga pausa, come se cercasse le parole giuste per spiegare a un bimbo che a una certa età si deve fare la cacca nel vasino. Appoggiò i gomiti sulla scrivania.

«Anche un gentiluomo può avere le sue debolezze, le sue piccole manie... è del tutto normale. Nessuno è perfetto» disse, con un sorriso tranquillo.

«Non è per questo che esistono i tribunali?».

«E a quella povera ragazza non ci pensa, Bettazzi? Anche lei avrà il diritto di avere i suoi sfoghi, non le sembra?».

«Ha ragione, non ci avevo pensato». Mi sanguinavano le orecchie. «Non mi fraintenda, nemmeno a me piacciono certe cose. Ma dipende anche da chi le fa, non le pare? Lei se la sentirebbe di condannare alla miseria la minorata e sua madre? O vuole mantenerle lei?» disse Pantano. Faceva onore al suo cognome. Non sapevo più cosa dire, ma sapevo bene cosa volevo fare. Mi alzai in piedi, calmo e tranquillo.

Presi il computer e lo rimisi nella borsa.

«Apra la porta, maresciallo».

«Troppe persone si sentirebbero offese e danneggiate, se il dottor Fallani avesse dei fastidi...».

«Mi è chiaro il concetto. Ora apra la porta, per favore».

«Parlo di persone molto in vista, Bettazzi. Capaci di far bruciare un fascicolo con una telefonata».

«Non era un reato anche quello?».

«Dimentichi questa stupida faccenda, Bettazzi, è un consiglio da amico. Potrebbe ritrovarsi in un mare di guai...».

«Mi ha convinto, maresciallo. Ho capito che in certi casi è meglio lasciar perdere». Accennai anche un sorriso.

«Lei è libero di fare come crede, ma poi non dica che non era stato avvertito».

«Non si preoccupi, non farò nulla di nulla. Faccia conto di non avermi nemmeno visto». Mi avviai alla porta. Il maresciallo si alzò per aprirmi, e ci salutammo con un cenno del capo. Non mi restava che andare a Siena per comprare una scatola di CD-ROM vergini.

Camilla arrivò verso le dieci. Avevo comprato solo affettati e formaggi, e cominciammo subito a mangiare. Le raccontai l’edificante colloquio con il maresciallo, cercando di ricordarmi ogni parola. Lei era incredula e disgustata.

Dopo cena misi un bel ciocco sul fuoco, e come al solito ci lasciammo andare sul divano. Feci una canna leggera, giusto per rilassarci.

«Mi domando come sia possibile cadere così in basso...» mormorò Camilla.

«Quel Fallani crede di poter fare il cazzo che gli pare, solo perché paga. Lo voglio vedere a quattro zampe».

«Il giustiziere di Fontenera» fece lei, sorridendo. Nonostante lo squallore di quelle faccende ci sentivamo bene. Le fiamme avvolsero il ciocco e si allungarono, scoppiettando. Un piccolo inferno privato... «Magari con tutte queste storiacce ci si potrebbe fare un film» dissi. Cercai d’immaginare la faccia di un produttore mentre leggeva il soggetto. Camilla si tolse le scarpe e mise i piedi sul divano. Bellissimi piedini che si muovevano dentro calzini rosa.
 

 

Sei un testone, ma in effetti hai scoperto un sacco di cose...».

«Non sono ancora soddisfatto».

«Perché no?».

«Mi mancano due cose. Primo: le stragi di polli e di conigli».

«Non ti ci fissare, sarà una volpe».

«Non è una volpe, di questo sono sicuro».

«Ma nemmeno un lupo mannaro...».

«Perché no?».

«Perché i lupi mannari non esistono». Alzò le spalle.

«Nemmeno l’America esisteva, prima che la scoprissero».

«Dai, non puoi credere a una cosa del genere. È solo una leggenda». La fiamma danzava tranquilla intorno alla legna, divorandola poco a poco. Avrei voluto che quel fuoco non finisse mai. Camilla mi si strinse addosso. L’odore della sua pelle e dei suoi capelli mi eccitava.

«E la seconda cosa?» disse.

«C’è bisogno di dirlo?».

«La tragedia della villa...».

«Già».

«Mi sa che su quella ci sbatti le corna».

«Prima dovrebbero spuntarmi».

«Non siamo mica fidanzati...».

«Attenta che non spuntino a te, dottoressa».

«Provaci e te lo taglio».

«Già, dimenticavo che sei siciliana».

«Oddio no, ancora con quella scemenza dei siciliani gelosi...».

«Perché, non è vero?».

«Ho avuto due fidanzati milanesi e uno di Bologna, e ti assicuro che anche a letto...».«Non lo voglio sapere».

«Ah, sei siciliano?».

«Mai stato geloso in vita mia» mentii, per orgoglio.

«Eppure quando senti parlare di Aníbal...».

«Non avevi buttato via sei mesi, con quello lì?».

«Malgrado tutto mi ha lasciato dei bei ricordi... soprattutto a letto».

«Adesso ti aspetti che voglia sapere se ce l’ha più grosso di me?».

«Ah, tu non sei come tutti gli altri?».

«Hai ragione, sono come tutti gli altri... Ce l’ha più grosso di me?». «Ma cosa dici, amore? Tu ce l’hai più grosso di tutti» disse Camilla, con la voce da mammina premurosa.

«Sto parlando sul serio».

«Sai che non mi ricordo? Ma se ti interessa una sera lo vedo e...». «Bene, hai vinto tu. Ora però parliamo di cose serie».

«Basta che non ricominci con i lupi mannari». Mi baciò all’improvviso, poi si alzò per andare a prendere il vino. Possibile che non potessi fare a meno di guardarle il culo?

«Domani torno dalla signora Rondanini» dissi, per parlare di cose serie.

«Ti sbatterà la porta in faccia come sempre».

«Lei sa tutto, me lo sento. Devo solo trovare il modo di farla parlare».

«Scommetto che non ci riuscirai».

«Una cena?».

«Bene». Ci stringemmo la mano per convalidare la scommessa. Camilla riempì i bicchieri e si sedette accanto a me. In quel momento in lontananza si alzò una specie di ululato, e Camilla mi si strinse addosso. Il lamento continuò a lungo, e i cani di tutta la vallata risposero a quel richiamo uggiolando come impazziti. Poi di colpo tornò il silenzio.

«Non si sente più» dissi.

«Preferivo sentirlo ancora, così magari si capiva cos’era».

«Manca poco alla luna nuova, non può essere l’uomo lupo».

«Ora sì che mi sento più tranquilla...».

«Forse era Angiolino che dialogava con un cucciolo di cinghiale». «Non è che devo ridere, vero?».

«Puoi farlo con comodo domattina, quando ci ripensi». La legna nel camino crollò fra una nuvola di lapilli, e lei si contrasse di nuovo. Dopo quel verso animale e quei latrati sgomenti era rimasto nell’aria un senso di pericolo. Immaginai un lupo mannaro che correva a balzi nella notte, ricoperto di peli neri, con due zanne lunghe come punte di cancello...

«Non mi hai ancora detto se il mio romanzo ti è piaciuto» dissi. «Forse perché non voglio dirtelo».

«Come mai le donne sono sempre così tortuose?».

«Come mai gli uomini sono sempre così prevedibili?».

«Hai ragione, infatti indovina a cosa sto pensando».

«Sei il solito porco...». Posò il bicchiere in terra e mi baciò, infilandomi una mano nei pantaloni. Poco dopo ci ritrovammo nudi. Mi alzai per mettere altra legna nel camino, e lei ne approfittò per sdraiarsi più comoda.

Una scopata bellissima, che subito dopo ci mettemmo a commentare nei dettagli con il gusto di camminare sul filo dell’imbarazzo. Ci rivestimmo a metà, e fumammo ancora un po’ d’erba. Camilla si mise a raccontare di quando era bambina. Cose belle e cose brutte, mescolate insieme. Era più dolce di quello che voleva far credere. «Domattina devo svegliarmi presto» disse, verso l’una. Si alzò per finire di vestirsi. Era quasi più eccitante di uno spogliarello. Mi vestii anch’io. Nessuno dei due accennava alla possibilità di dormire insieme. Non volevo essere troppo invadente... e nemmeno prevedibile. Ma la verità era che avevo paura di sentirmi dire di no.

L’ultimo bacio venne consumato attraverso il finestrino aperto della Fiesta, con il motore già acceso. Le chiesi il favore di farmi uno squillo quando arrivava a casa, e questa cosa la agitò. Mise le sicure e partì con il cellulare sulle ginocchia. Non riuscivamo a liberarci del lupo cattivo.

Aspettai di vederla sparire nella notte e tornai in casa. Chiusi bene la porta, salii in camera e accesi il computer. Non avevo sonno. Mi misi a scrivere, questa volta Orrore sulle colline. Mentre seguivo il protagonista nel fitto del bosco mi arrivò un SMS: Sono salva, ciao lupo. Risposi: Ti voglio anche domani. Non mi rispose. Scrissi fino alle quattro, e finii Orrore sulle colline. Era venuto fuori un racconto piuttosto lungo, ma ancora non sapevo che roba fosse. Finiva con l’ultimo faccia a faccia tra l’uomo lupo e Filippo... che nell’ultima riga moriva, portandosi dietro il segreto che aveva appena svelato: i lupi mannari esistevano eccome.

 

 

Mi svegliai per colpa di un tuono che fece tremare la casa. Stava diluviando. Il rumore della pioggia sul tetto sembrava un camion in una galleria. Le otto e un quarto. Mi affacciai alla finestra. Il cielo era nero, e nei campi scorrevano ruscelli d’acqua.

Mi lavai la faccia e andai a farmi un caffè, sfiorando i muri con le dita per non cadere. Mi sentivo piuttosto rincoglionito, ma quel giorno dovevo occuparmi di diverse cose. La pioggia non mi avrebbe fermato.

Recuperai le foto del vicesindaco dal drive USB, e le copiai su cinque CD-ROM. Aprii un file nuovo di Word, e scrissi la data e il luogo dello scatto. Nella riga sotto, il nome del protagonista maschio: il vicesindaco di Montesevero, dottor Maurizio Fallani. Mi mancava solo il nome della poveretta, ma l’avrei scoperto presto. Magari lo sapeva anche Camilla. In un altro file scrissi cinque indirizzi, da stampare e incollare sulle buste: Procura della Repubblica, Questura di Firenze, Tribunale per la tutela dei minori, due quotidiani nazionali.

Telefonai a Camilla, ma purtroppo non conosceva di persona quella ragazza e non sapeva il suo nome. Ne approfittai per invitarla a cena, questa volta al ristorante. Ma quella sera lei non poteva. Disse che doveva tradurre con urgenza un articolo di pediatria per una rivista specialistica. Mi lasciai sfuggire un grugnito da fidanzato sospettoso e geloso, e lei mi disse che in realtà doveva vedere tre portoricani per fare un film porno. Risi della battuta, ma la mia mente aveva già immaginato la scena e sentii uno strizzone allo stomaco.

La invitai per la sera dopo.

«Domani va bene» disse la principessa.

«Mi prenoto anche per dopodomani».

«Rischi di venirmi a noia».

«Non sai quello che dici...».

«Vedremo». Ci salutammo. Dovevo aspettare quasi trentasei ore prima di rivederla...

Pioveva ancora forte e tuonava, ma non avevo nessuna voglia di stare chiuso in casa ad aspettare. Trovai un vecchio ombrello nell’ingresso e m’infilai in macchina. Andai dritto al negozio della Marinella. Nonostante il temporale era pieno di donnine, gioiose per tutta quell’acqua. Feci un sorriso rassicurante e mi lanciai alla scoperta del nome della demente.

«L’altro giorno ho visto quella ragazza... come si chiama? Quella molto carina ma un po’... Quella che viene sempre qui con la mamma».

«E dove l’avete vista?» chiese una donnina.

«Camminava da sola, lungo la strada per Montesevero».

«Non è possibile» disse la Marinella, tagliando la cotenna a un grosso prosciutto.

«Perché no?».

«Esce sempre con la mamma» fece una donna grassa con i capelli tinti. Mi sembrava di averla vista alla cassa della macelleria, dove non andavo mai.

«Forse non parliamo della stessa ragazza. Quella che dite voi come si chiama?».

«Perché ci tenete tanto a dire che l’avete vista?» chiese una vecchietta. Stava diventando una situazione complicata, dovevo uscirne subito.

«Era solo per fare due chiacchiere...».

«Non sembrava» mormorò una voce nel gruppo. Non dissi più nulla, e aspettai il mio turno leggendo le etichette sugli scaffali. Dopo un po’ di silenzio le donnine ricominciarono a parlottare. Ne entravano e ne uscivano di continuo, ma il discorso non s’interrompeva mai. La Marinella affettava salumi e tagliava formaggi.

«Stamattina ho visto Beppe con l’ape».

«Ah, sì?».

«Ecco qua, mezzo chilo di pecorino stagionato. Ti serve altro?».

«A che ora?».

«Saranno state le sette».

«Tre etti di finocchiona e due di mortadella per il bambino».

«E dove andava?».

«Giù verso Sant’Anselmo».

«Ieri la Piera s’è mozzata il dito di un piede».

«E con cosa?».

«Con il falcetto».

«La finocchiona te la taglio alta?».

«E come ha fatto?».

«Sì, bella alta».

«Ci è scivolata sopra...».

«Stanotte su da Livio... cinque polli ammazzati».

«A me hanno detto sei, e un coniglio».

«No, sono cinque galline e basta».

«Avete sentito l’ululato, verso mezzanotte?» dissi. Silenzio di tomba. In quel momento entrò il vicesindaco, bagnato fradicio. Istintivamente strinsi i denti. Lui salutò tutto il negozio con uno sguardo circolare, e sorridendo chiese il favore di farlo passare avanti perché aveva una fretta boia. Le donnine si scostarono, senza protestare.

«Cosa le do?» disse la Marinella, ruvida. Non sembrava avere molta simpatia per quel panzone, anche se era un benefattore.

«Tre etti di finocchiona» disse Fallani. Aspetta qualche giorno, pensai, poi la finocchiona la faranno con le tue palle.

Mentre la Marinella affettava, Fallani scherzava con le donnine e le faceva ridacchiare. Ero sempre più convinto di quello che stavo per fare. Il vicesindaco mise i soldi sul bancone e uscì senza prendere il resto, seguito dallo sguardo severo della Marinella. Dopo questa piccola interruzione la fila continuò normalmente.

Finalmente arrivò il mio turno. Comprai solo un po’ di pane e un mazzo d’insalata. Avevo il frigo pieno di roba. Montai in macchina e imboccai la provinciale per andare dalla signora Rondanini. Il temporale si era un po’ allontanato, e sopra le colline il cielo si stava aprendo. Sui campi pesava ancora una luce verdastra, molto adatta ai film di vampiri... ci mancava solo il vampiro, a Fontenera. Era il paese dei matti. Rachele, Angiolino, la bella ragazza... e magari ce n’erano altri, bastava avere pazienza. Le storiacce non mancavano, su quelle colline. Ero convinto che la peggiore di tutte fosse la tragedia della famiglia Rondanini.

Parcheggiai sull’aia e scesi senza ombrello. Non pioveva quasi più. Bussai alla porta. Aspettai. Nulla. Bussai più forte. Finalmente sentii un rumore di chiavistelli e la porta si dischiuse, appena appena. Nella fessura vidi l’occhio della signora che mi fissava. «Signora Rondanini, mi dispiace disturbarla ancora. Ho assolutamente bisogno di parlare con lei».

«Lasci riposare i morti».

«Signora, mi ascolti... sono convinto che alla villa non è successo quello che raccontano tutti... Sono anche convinto che forse... che forse Rachele potrebbe essere aiutata a uscire dal suo incubo...».
«Lei non sa quello che dice». Stava per andarsene.

«Se non mi apre tornerò qua tutti i giorni, finché non si degnerà di parlare con me».

«Perché?».

«La prego, mi faccia entrare».

«Non voglio parlare di nulla».

«Si fidi di me, la prego» dissi, solenne. Qualche secondo di silenzio. Poi la vecchia Rondanini fece un sospiro, e il suo occhio si allagò di rassegnazione.

«Ora ho da fare. Torni stasera».

«A che ora?» chiesi un po’ stupito. Non mi aspettavo un invito del genere.

«Venga a mezzanotte».

«Non sarà troppo tardi?». Meno male che Camilla quella sera non poteva. «Mi corico a notte fonda» disse la signora, secca.

«Va bene, torno a mezzanotte». La porta si chiuse, e sentii tirare un paletto. Montai in macchina e me ne andai lentamente lungo la stradina. Quando alzai gli occhi sullo specchietto vidi la signora sull’aia, appoggiata al bastone, che guardava nella mia direzione. Sembrava un imperatore in esilio.

Tornai a Fontenera e parcheggiai nel piazzale di Romero. Il cielo non era riuscito a liberarsi dalle nuvole, e cadeva ancora una pioggerella sottile. Romero stava riempiendo di legna fine delle ceste, sotto la solita tettoia di plastica ondulata. Chissà quanti milioni di volte aveva fatto quella stessa cosa. Mi avvicinai.

 

(Continua)

 

(La Stampa.it)