Una strage di conigli

Di Marco Vichi.

Finalmente arrivai a casa. Corsi dentro e chiusi bene la porta. I lupi mannari non esistevano, questo era sicuro. Di leggende ce n'erano a migliaia... i vampiri, i morti viventi, i fantasmi. Tutte stronzate, storielle inventate dall'ignoranza popolare. Appena entrai in camera accesi il computer e mi collegai a Internet. Avevo bisogno di ritrovare i miei punti fermi, di sentirmi parte del mondo civilizzato... anche se viaggiare a 56k era un po' come andare a cavallo.

Stronzate popolari, certo. In che razza di posto ero capitato? Scaricai le mail. Un paio erano di lavoro, le altre di amici che mi chiedevano dove fossi finito... In quel momento non lo sapevo nemmeno io. Risposi in fretta ai messaggi e aprii un nuovo documento di Word. Rimasi un po' a fissare lo schermo. Il romanzo non voleva ancora uscire dal suo buco. Era inutile insistere. Per non stare con le mani in mano buttai giù qualche pagina sulla tragedia della villa, cercando di colmare i vuoti con l'immaginazione. Ero così stanco che mi addormentai seduto. Quando stavo per cadere dalla sedia mi svegliai, e mi trascinai fino al letto.

Mi svegliò la suoneria del cellulare, che mi sembrò potente come la sirena di una fabbrica. Prima di riuscire a connettere mi passarono davanti agli occhi tre immagini: la bocca di Camilla, il cane lupo che sbranava la mamma di Rachele e la figura ritta sulle gambe che avevo visto muoversi nell'oliveto. Spazzai via tutto e risposi.

«Amore, sono la mamma».

«Ah, ciao...». Avevo l'affanno, come se fossi appena riemerso dalle acque.

«Mica ti ho svegliato?».

«Che ore sono?».

«Quasi le otto».

«Ah...». Mi ero addormentato alle quattro e mezzo. «Emilio ci sei?».

«Sì mamma, sono qui».

«Non ti sentivo più». Non aveva nulla di preciso da dirmi, come sempre.

«Stavo dormendo...».

«Volevo solo farti un salutino... Riesci a dormire con tutto quel silenzio?».

«Certo».

«Fa freddo?».

«Ma no...».

«Mangi a sufficienza?».

«Sopravviverò, mamma».

«Quando torni a Firenze?».

«Non so... Sono appena arrivato».

Finalmente riattaccammo. Mi sentivo molto stanco, ma non avevo più sonno. Scesi in cucina a farmi un caffè. Avevo dormito pochissimo, e barcollavo sulle gambe. Ero venuto in campagna per rilassarmi e scrivere il mio romanzo più bello... Dopo una doccia lunghissima montai in macchina e andai a Fontenera per fare un po' di spesa. Mentre parcheggiavo mi passò davanti la bella ragazza demente, agganciata al braccio di sua madre. Si voltò a guardarmi con i suoi occhi vuoti. La salutai con la mano, ma non mi rispose.

M'infilai nell'alimentari della Marinella. Le donnine si erano un po' abituate a me, e a parte le solite occhiate parlavano più liberamente. Mentre ero in coda le sentii mormorare di galline e conigli uccisi a morsi. La ridente campagna toscana, pensai. Ascoltavo fingendo indifferenza, ma non mi perdevo una parola. Mi piaceva stare a origliare le storie paesane. La strage era successa quella notte, in una fattoria lì vicino. Quei poveri animali erano stati ammazzati con malanimo, dicevano, non per fame. Non poteva essere stata una volpe e nemmeno una faina, perché le volpi e le faine prendono solo una gallina e se ne vanno. Invece quelle povere bestie erano tutte lì, dilaniate dalla cattiveria. Mi venne subito in mente quell'ombra umana che avevo visto correre fra gli olivi, ma non dissi nulla. Le donnine si lanciavano sguardi pieni d'intesa, come se alludessero a una faccenda che conoscevano tutti. Tranne io, ovviamente. Ogni tanto il brusio si attenuava, per riaccendersi quando entrava qualcuno. C'era chi portava notizie fresche della strage e chi faceva domande. Radio Marinella non si spegneva mai, e rallentava il ritmo dell'affettatrice. Ci misi quasi un'ora a uscire di là. Tornai a casa, posai la spesa in cucina e uscii di nuovo per la passeggiata rituale. Mi ero abituato a quella pace, e ormai anche i versi degli uccelli mi sembravano silenzio. Passando vicino ai cascinali sentivo bollire l'uva nei tini.

Sotto il sole si stava ancora bene, ma all'ombra era già autunno. I colori della campagna stavano cambiando e gli odori del bosco erano più forti. Continuai a seguire le mie congetture. L'ombra umana che correva tra gli olivi, i polli e le galline fatte a pezzi... forse valeva la pena di scriverci sopra un racconto. E magari anche un saggio: «...e questa meravigliosa campagna, rimasta uguale a se stessa per secoli e secoli, negli ultimi decenni si è inquinata di miti metropolitani e televisivi, e il suo equilibrio millenario è diventato fragile. Può rompersi da un momento all'altro. Ma nel frattempo genera personalità moralmente sradicate, strappate via con forza dalle loro tradizioni e scaraventate in territori mentali lontanissimi dai luoghi dove continuavano ad abitare. Un'alienazione più terribile di ogni altra. Ed è inevitabile che da questo magma confuso scappi fuori di tanto in tanto un mostro assetato di sangue, guidato da pulsioni incontrollabili...». Ora sì che mi sentivo più tranquillo.

Arrivai davanti alla villa. Come al solito spinsi il cancello e m'infilai nel giardino. Ora che conoscevo la brutta storia dei Rondanini l'atmosfera mi sembrava diversa, più cupa. Mi misi a passeggiare intorno alla villa guardando gli intonaci ricoperti di muschio, l'edera che saliva fino al tetto correndo lungo una grondaia, le persiane chiuse sbarrate. Chissà in quale stanza era successa la strage. Mi aspettavo da un momento all'altro di sentire le voci, e in qualche modo lo desideravo. Mi fermai a guardare la meridiana di marmo bianco, murata in alto sulla facciata, e m'incantai a pensare all'impiccato, a sua madre che apriva la porta e se lo trovava davanti con la lingua di fuori... Mi sentii toccare una spalla e mi voltai soffocando un urlo.

(Continua)
 


 

(La Stampa.it)