La Scala torna all'antico
cravatta sempre d'obbligo

Il sovrintendente Lissner ripristina un obbligo inosservato da anni
Ma Milano si divide. Chailly: giusto onorare un luogo. Dario Fo: è discriminazione

MILANO, 26 gennaio 2007. - Abito scuro per le "prime", giacca e cravatta per tutte le rappresentazioni, e per le donne "abbigliamento consono al decoro del teatro": la Scala da questa stagione ha deciso di stampare sul retro dei biglietti una sintesi (in italiano e inglese) delle norme di corretto comportamento da tenere durante gli spettacoli, abiti compresi. E promette, per il futuro, controlli discreti: nessuno sarà cacciato, dicono, ma invitato a osservare le regole. Una scelta che fa discutere e divide artisti e pubblico: c'è chi è assolutamente in linea col sovrintendente Stéphane Lissner, sostenendo che la Scala è un'istituzione storica che merita rispetto, chi invece teme che l'invito a presentarsi con una "divisa" possa allontanare ancora di più dalla musica lirica e classica il grande pubblico.

"Sono d'accordo: è bello che in una sede storica come la Scala gli spettatori abbiano un atteggiamento, non dico reverenziale, ma che onori il luogo" sostiene il direttore d'orchestra Riccardo Chailly. Un'opinione non scontata la sua, visto che ha lavorato a Londra e ad Amsterdam, dove il pubblico spesso va ai concerti con un look casual. "In Olanda, poco manca che si presentino in mutande" aggiunge "ma alla Scala no, la sua tradizione impone un atteggiamento diverso".

Anche l'ex sovrintendente scaligero, Carlo Fontana, sostiene che la battaglia è giusta: "Ho l'imprinting di Paolo Grassi, che diceva: Lenin ha fatto la rivoluzione in giacca, cravatta e panciotto". La regola, però, non vale per i musei. "Il teatro è un momento aggregante" aggiunge Fontana "Ci vuole rispetto per chi lavora sul palcoscenico". Secondo il compositore Fabio Vacchi, "la diseducazione del pubblico è un oceano molto vasto, dove trovano posto sia il vestirsi con abiti pseudo-casual, che magari costano il triplo di quelli normali, sia far squillare il telefonino, applaudire tra un movimento e l'altro di una sinfonia, sbattere le porte dei palchi. La scelta della Scala è un richiamo all'avanguardia, contro il conformismo dilagante", perché presentarsi in jeans e maglione è "un atteggiamento ostentato e sbruffone".

Favorevole anche l'assessore alla Cultura del Comune di Milano, Vittorio Sgarbi: "Bisognerebbe costringere i turisti a vestirsi in modo consono quando visitano i monumenti, e questo vale anche per i teatri".

Meno drastico il parere del capo dell'ufficio indagini Figc Francesco Saverio Borrelli, assiduo frequentatore della Scala. "Mi pare una pretesa eccessiva ripristinare un rigore nei costumi" dice. "Certo, nessuno entrerebbe in una chiesa in costume da bagno, quindi è giusto l'appello a non assistere agli spettacoli in pantofole e camicia aperta sul petto villoso. Ma da qui a esercitare dei controlli... Così si rischia di rendere i teatri delle roccaforti del passatismo e di tenere lontano il grande pubblico".

"Brutto segno", sostiene il Premio Nobel Dario Fo. "È l'uomo che fa l'abito, lo stile, non viceversa. Credo che la Scala preferisca avere spettatori tutti molto simili, meglio se persone soltanto di un certo rango. È una forma di discriminazione". Il giovane direttore Antonello Manacorda, ex violinista pupillo di Abbado, è il più critico: "Mi viene da ridere: cosa vuol dire fare dei controlli? Sono d'accordo sull'eleganza, che non fa male a nessuno, come la bellezza. Ma perché identificarla con giacca e cravatta? E poi si vogliono trascinare i giovani a teatro: se li obblighiamo a vestirsi come i loro genitori, non li vedremo mai. E noi, per chi li faremo questi concerti?".

 

Da Repubblica.it