L'Italia ammalata di odio
In un romanzo di Cotroneo i nodi irrisolti degli Anni 70.

23 settembre 2008. - Incontro Roberto Cotroneo a Roma per parlare del suo nuovo romanzo, Il vento dell’odio, in uscita oggi da Mondadori. Ci troviamo davanti alla libreria Feltrinelli e, dovendo discutere di terrorismo, siamo attratti, come da una calamita, dal ghetto adiacente, quel dedalo di vie dove si consumò l’eccidio di Moro. «Ho vissuto quegli anni ad Alessandria, avevo 17 anni», dice Cotroneo. «È stata una fortuna perché sono stato testimone, ma non partecipe, e la provincia mi ha dato quella media distanza necessaria per poter raccontare».

Ma raccontare cosa? Anzitutto, la storia di Cristiano e di Giulia risucchiati nel vortice della lotta armata: come brigatista l’uno, come fiancheggiatrice l’altra. I padri di entrambi hanno una doppia vita, di cui tengono all’oscuro i figli: quello di Cristiano è un oltranzista atlantico, collaboratore dei servizi segreti con un sanguinoso passato da fascista che ancora alimenta la parte nascosta della sua vita, quel sentimento segreto che ne fa uno degli ispiratori occulti della strategia della tensione in Italia. Il padre di Giulia, invece, è un comunista intransigente, vicino alle posizioni di Secchia e lontano da quelle di Togliatti, che viaggia in Bulgaria ufficialmente per affari, in realtà per tenere le fila di una rete di spionaggio filosovietico in Italia. Ad accendere la narrazione è il caso: Giulia, ormai divenuta una donna di successo, acquista la casa dove abitava Cristiano che vive latitante in Sud America. Dietro un tramezzo rinviene un memoriale che raccoglie la confessione del padre di Cristiano sulla strategia della tensione e lo fa recapitare al suo lontano compagno di gioventù. Cristiano, raggiunto dallo scritto, rientra in Europa e decide di ripercorrere il rapporto con il padre, ma anche di rileggere il proprio passato da terrorista fino all’assassinio di Moro.

Il caso Moro costituisce l’altro protagonista del libro, perché accanto al memoriale del padre di Cristiano, frutto dell’invenzione dell’autore, abbiamo un secondo memoriale, questa volta vero, quello che l’uomo politico democristiano scrisse durante la prigionia e che non è stato mai ritrovato in originale. Un memoriale che nel romanzo finisce tra le mani del padre di Giulia (la cui figura ricalca quella di Giorgio Conforto, agente del Kgb in Italia in base al dossier Mitrokhin), il quale prima lo porta in Cecoslovacchia e poi lo nasconde nella cassaforte della sua casa, da cui scompare misteriosamente: «Un giallo alla Sciascia, da non svelare, di quelli senza una sola soluzione». Un’ipotesi suggestiva, dove la letteratura riesce ad attingere livelli di verosimiglianza che la giustizia non è stata in grado di provare e la storia non può ancora liberamente affrontare.

Le pagine migliori sono quelle da cui scaturisce un’idea dell’Italia che l’autore mutua dal tema pasoliniano del fascismo eterno, un’idea che percorre il discorso del padre stragista: «Immaginati l’Italia come un lago alimentato da fiumi diversi: un lago grigio, melmoso, dove tutto si mescola e si confonde. Io il fondo lo conosco. E c’è un punto in fondo al lago dove non c’è più nessuna differenza. Sai perché? Perché là arrivano le correnti sotterranee, quelle che alimentano davvero il bacino del lago. Mentre tutti credono che sia merito dei fiumi. Quelle correnti sono immutabili da secoli, forse da millenni».

Appaiono meno felici i passaggi in cui l’autore usa gli intrecci generazionali per sgomitolare il filo rosso che dal fascismo porta agli Anni 70. Si rischia così di tagliare la storia con l’accetta dell’ideologia, un destino forse inevitabile quando di questa disciplina si fa un uso pubblico: e così la violenza diventa metastorica e quindi inspiegabile, il «vento dell’odio» una forma di tragico sentimento ineluttabile, la «guerra civile», che alla lettera puntellava i comunicati delle Br e le dichiarazioni di intenti di Potere operaio, un balsamo assolutorio per i reduci di oggi e gli sconfitti di ieri. In realtà, gli studiosi di storia sanno bene che gli uomini sono figli più dei loro tempi che dei loro padri, e storia e memoria sono due binari paralleli che corrono nella stessa direzione, ma sono destinati a non incontrarsi mai.

Il libro è percorso da una tensione civile rara di questi tempi: a Cotroneo non interessa tanto la ricomposizione della vicenda biografica dei personaggi, quanto la scomparsa dei memoriali. Finché non verrà fatta chiarezza sulla strategia della tensione e non saranno ritrovate le carte di Moro, questo paese resterà senza speranza: lo scrive nel libro e lo ribadisce davanti a un croccante carciofo alla giudia.

Ci lasciamo alla Feltrinelli e lui si allontana stringendo il suo libro tra le braccia come fosse un bebé. Guardo quel megastore di libri e mi viene in mente il suo fondatore Giangiacomo e una furiosa galleria di immagini: i Gap che per primi si dedicarono alla lotta armata in Italia, i rapporti con Secchia e con le prime Br, il comandante Osvaldo che dormiva in tuta mimetica su un pagliericcio per abituarsi ai rigori della guerriglia, l’attesa di un colpo di Stato fascista, la scelta della clandestinità, la lettera al figlio Carlino con il proposito di raccontargli un giorno la «vera storia d’Italia», la dissipazione di quella morte a Segrate. Da quel traliccio novecentesco al supermercato liquido e senza memoria di oggi. In questa folgorante parabola vive la storia d’Italia degli anni Settanta: è tutta ancora da scrivere e non è un romanzo.

 

(La Stampa.it)