L'impero romano non è mai caduto

La sua vocazione multietnica, attraverso Bisanzio e la Russia di Ivan IV Groznij,
si è prolungata fino all’Unione Sovietica.

23 aprile 2007. - Che l’impero romano non sia mai caduto i sudditi di Costantino e dei suoi successori lo hanno sempre saputo chiaramente. Non a caso i «bizantini», come li definiamo noi, si autodenominavano rhomaioi e continuavano a considerare e chiamare «romano», a buon diritto, il proprio Stato.

Se guardiamo la storia inforcando, per così dire, occhiali bizantini, adottando cioè l’ottica di quella che era in effetti la superpotenza militare, economica, politica e anche culturale egemone nel Medioevo mediterraneo (anche se oggi la nostra memoria collettiva occidentale ha censurato o rimosso questo dato, se solo si pensa all’accezione negativa, dura a morire, che hanno assunto i termini «bizantino» e «bizantinismo»), non possiamo non arrivare alla conclusione che la cultura — nel senso più lato del termine — antica abbia semplicemente percorso un’ellissi, così come l’aveva compiuta la sua capitale, rifondata spostando il baricentro della geopolitica dell’impero un po’ più a Est. E non certo per un’ispirazione improvvisa e arbitraria, ma seguendo il flusso degli investimenti della classe senatoria, e la molteplicità di cause e necessità di ciò che chiamiamo storia.

Se supponiamo che l’impero romano e in generale la civiltà classica non siano affatto finite in quello che viene considerato il momento della «fine dell’antichità» e dell’inizio del Medioevo, ma abbiano compiuto un’ellissi di undici secoli, ci è più facile realizzare quanto direttamente la grande civiltà umanistica di Bisanzio, con il suo susseguirsi di rinascenze, abbia passato il testimone all'Europa, dando vita a ciò che chiamiamo «il» Rinascimento, e facendo tornare alla Prima Roma il culto dei classici e la filosofia platonica.

Riguardo poi alla parte propriamente politica dell'eredità del primo imperatore che rese il cristianesimo religione di Stato e tuttavia fondò il cosiddetto cesaropapismo (l'estromissione del clero dal potere temporale divinizzato nella figura dell'autocrate secolare) e riguardo all'eredità civile del suo impero (la multietnicità, la già citata capacità di amalgamare e integrare sempre diverse etnie in un'unica politeia amministrativa), questa duplice eredità si sarebbe trasmessa, alla caduta della Polis di Costantino, in parte all'impero multietnico ottomano, suo diretto conquistatore, in parte a quello russo, suo immediato continuatore. Imperi multietnici, dove la sopravvivenza della cultura romano-bizantina è apertamente assicurata.

Perché, se nel 1453 venne meno l’osmosi culturale tra Oriente e Europa occidentale, non si estinse, in quelle due propaggini nord- e sud-orientali, la vocazione imperiale di mediazione tra le etnie. I sultani non soltanto applicarono il diritto romano in quanto diritto consuetudinario dei popoli cristiani soggiogati, ma mutuarono con rispetto e precisione strutture amministrative e fiscali dell’impero bizantino, che a loro volta erano eredi di quelle romane. Lo stesso vale per il mondo russo. Ivan IV Groznij, com’è noto, fa discendere il proprio potere da quello dei cesari, ossia da una successione ininterrotta di imperatori romani e bizantini. C’è insomma un’innegabile tradizione comune che si biforca e prosegue negli altri due imperi, che forse, dopo che si sono disgregati l’uno all’inizio e l’altro alla fine del ‘900, può essere oggi un punto di forza, quando parliamo di «scontro di civiltà» tra Oriente islamico e Occidente cristiano.

L’impero romano non è mai caduto. O forse sì, ma molto di recente. Nel 1989, magari, quando è caduto il muro di Berlino, o nel 1991, quando è stata sciolta l’Urss e l'eredità di Costantino, esplicitamente rivendicata da Ivan IV Groznij, si è vanificata definitivamente, portando conflitti in tutte le aree di irradiazione della civiltà multietnica romana in cui gli imperi multinazionali subentrati avevano saputo tenere a freno i conflitti tra etnie, dai Balcani al Caucaso nel caso del blocco sovietico, nelle antiche pianure della Sogdiana e della Bactriana, che oggi chiamiamo Afghanistan, Iran e Iraq, per quello ottomano.

Tenendo presenti queste premesse è forse meno arduo comprendere il turbolento esordio del XXI secolo, ripetutamente insanguinato dai conflitti etnici. Faglie di attrito antichissime, preromane e prebizantine, hanno ricominciato a entrare in moto complesso nel momento in cui gli eredi di Bisanzio, cioè dell’impero romano, si sono disgregati.

Guardare verso queste zone con occhi «romani» è qualcosa da reimparare. L’elemento romano, parzialmente ma non del tutto rimosso dalla nostra coscienza storica con la rimozione di Bisanzio, dovrebbe essere la bussola che ci orienta ogni volta che parliamo di identità o di scontro di civiltà. La civiltà bizantina era una formidabile alleanza tra pensiero greco e tradizione giuridica e politico-amministrativa romana. Ebbene, questa alleanza è ciò che chiamiamo la nostra civiltà.

«Da Roma alla Terza Roma» è il titolo del 27° seminario internazionale di Studi storici, organizzato per il 2760° anniversario della fondazione dell’Urbe, che si è aperto ieri in Campidoglio a Roma per concludersi domani. Al centro dell’attenzione, lo studio dei principali momenti della storia nei quali è stato superato, attraverso l’idea di Roma, il particolarismo etnico e statale dei popoli europei: come ha scritto il giurista tedesco ottocentesco Rudolf von Jehring «la missione di Roma sta nel superamento del principio di nazionalità attraverso l’idea dell'universalità». Tra gli interventi di oggi (dalle 9 nella Sala della Protomoteca), quello di Silvia Ronchey sul tema «Continuità geopolitica dell’Impero romano», di cui pubblichiamo qui una sintesi. In chiusura, domani, solenne celebrazione del 2500° anniversario del Giuramento della Plebe al Monte Sacro.

 

Da La Stampa.it