Gli Incas nei cieli dei condor
La strada nella roccia che s’inerpica sulle Ande.

Il palazzo di Inca Roca, a Cuzco.LIMA, 22 agosto 2007. - Fino a qui, queste sono mura costruite dagli Inca», dice la piccola guida andina. Poi sorride, come per scusarsi in anticipo, e prosegue: «Da qui in poi, invece, sono state erette dagli inca-paces». Siamo al Cuzco, che significa «ombelico», e quindi ombelico del mondo, come racconta Garcilaso de la Vega «el Inca» nel libro che è la memoria mitica, antropologica e storica del Perù preispanico, i Commentari reali degli Incas. Con la guida andina siamo sul retro del palazzo di Inca Roca, oggi, molto peruvianamente, «Museo de arte religioso». Come quasi dappertutto, gli spagnoli hanno costruito il loro palazzo sui resti di una costruzione Inca. E, come quasi sempre nella movimentata storia geologica del Perù, quando nel 1950 è arrivato un terremoto che ha scosso le montagne per la durata di tre Credo, la parte spagnola è venuta giù, mentre quella Inca è rimasta intatta.

In questa specie di malinteso fra architetti, di errore di traduzione fra carpentieri sta una delle chiavi per poter intendere il Perù di cinquecento anni fa come quello di oggi. Un Paese la cui più ovvia unità di misura sembra esser stata e rimanere lo smisurato, sia che si tratti di povertà come di ricchezze, di fenomeni naturali come di leggende, di civiltà come di barbarie. Gli Inca e le culture che li hanno preceduti e combattuti sembrano aver interpretato lo smisurato con l’ambizione di scrivere la loro geografia. Hanno trattato «costa, sierra e selva» come se fossero un’unica pagina bianca, grande quanto il mondo. Ambizione ciclopica e paradossale, ma persistente, fino a oggi insistente e trasmessa in qualche modo agli «spagnoli». Popoli che non hanno mai davvero conosciuto la scrittura sono stati in cambio maestri e sacerdoti di geoglifi, segni e simboli tanto grandi che si possono vedere solo dall’alto, fatti per l’occhio e, a giudicare dal poco che ancora ne sappiamo, anche per l’intuito senza ambiguità del condor e oggi per quello più tecnologico e dimesso dell’aereoplano.

A cominciare dalle linee della pampa di Nazca, dove su un’area desertica di 350 chilometri quadrati sono tracciate le gigantesche figure della scimmia, del ragno, della balena, del condor, delle mani, dell’iguana, del colibrì, quella antropomorfa dell’astronauta che dal fianco di una collina saluta come ET, e quelle molto più misteriose e inquietanti della spirale, delle piazzole geometriche, delle rette lunghe decine di chilometri che guidano l’occhio all’atterraggio. Le vedi solo dall’alto, a bordo di un Cesna portato in giro dal pilota e molto più dal vento. Viri, cabri, con lo stomaco fra i denti ti raccomandi all’immagine emaciata di Maria Reiche, l’archeologa tedesca che le ha studiate per quasi settant’anni, vivendo nel deserto, pulendole con la scopa, proteggendole dal vandalismo dei locali e sognando con la fantasia intransigente degli scienziati che fossero il più grande calendario astronomico del mondo. Tuttavia, anche così, non puoi fare a meno di notare il più recente geoglifo, tracciato dagli «spagnoli»: la retta scura della Panamericana Sur, che sfiora il segno delle mani e taglia in due come una spada la coda dell’iguana. Anche questo è uno smisurato malinteso, un gigantesco errore di traduzione ed è questo che vede oggi il condor dall’alto. Vede la pianta a forma di puma del Cuzco e le costruzioni coloniali e moderne che la cancellano, vede le scritte elettorali e gli slogan di «orgoglio» nazionalista che l’improbabile e corrotta, politica contemporanea peruviana incide a caratteri cubitali sui fianchi delle montagne, vede il gigantesco volto dell’Inca scolpito sulle pendici a strapiombo davanti alla città-tempio di Ollantaytambo e vede, a Lima, le grandi aiuole sponsorizzate del paseo de la Repubblica dove accuratissimi giardinieri curano con precisione orientale moderni geoglifi tracciati con i fiori: «Chocolate Sol del Cuzco», «Tuboplast», «Grifferia (rubinetteria) Vainsa», «Renzo Costa Pasion por los cueros», «The Salvation Army», «Paginas amarillas».

Ma soprattutto, dall’alto, il condor vede il tracciato delle Strade Reali degli Inca che sulle vette «del Ande», come dicono qui, e attraverso incisioni fatte nella roccia e ponti di corda sospesi sull’abisso collegava un tempo Quito, oggi in Ecuador, con il Cile, per una lunghezza di più di 800 leghe. Le si può percorrere per intero nel bellissimo libro di Victor von Hagen, l’archeologo che le ha riportate alla luce. Erano fra l’altro uno strumento di potere e sapere per l’immenso impero dell’Inca, erano il tracciato che articolava i centri dell’impero, oggi rese secondarie dall’immenso gorgo che deve sembrare Lima dall’alto, con l’alluvione dei suoi otto milioni e mezzo di abitanti, mentre la seconda città del Perù, Arequipa, ne conta, a stento, uno. Verso sud, Lima - dove il salario medio è di 190 dollari al mese e cui un autore peruviano abbastanza noto, Salazar Bondy, dedicò un libro, Lima la horrible, che stranamente non trovo disponibile in nessuna libreria del centro - si estende e muta come un essere biologico. Dai palazzi del centro alle costruzioni in corso della periferia, ai tetti di latta dei sobborghi, alle pareti di paglia e canne del deserto che circonda la città, ai cartelli piantati nel nulla della polvere e della sabbia su cui, enigmaticamente in quel vuoto, sta scritto «Proprietà privata. Ordine di sparare».

Tutte le strade degli Incas non portano a Lima. Non è necessario, perché Lima divora anche i sogni dei peruviani, che spesso non conducono a nulla. Fraintendimenti, malintesi, scolpiti indelebilmente nella scrittura per geoglifi di un Paese che continua a eleggere una classe politica che disprezza e da cui è vessato e ingannato senza rimedio. Ma anche registrati nella sua storia moderna, che inizia con un riscatto, una cattiva traduzione e il disvelamento di un inganno. Il riscatto è quello di Atahualpa, valutato, come racconta Antonello Gerbi nel suo grande saggio dedicato al Mito del Perù, nell’incredibile somma di 1.326.539 pesos d’oro e 51.610 marchi d’argento. Cifra anch’essa smisurata, probabilmente inferiore al vero e comunque incalcolabile per un popolo che si perdette più perché non conosceva la scrittura e la moneta che per il fatto di non aver mai visto cavalli e archibugi. La cattiva traduzione fu quella di Felipillo, indio-lengua, l’ambiguo interprete fra Pizarro e Atahualpa, che se non determinò la sorte di quest’ultimo per interessi personali, di certo la affrettò. L’inganno fu quello di El Dorado, svelato dalla ribellione feroce e disperata di Lope de Aguirre.

El Dorado, racconta Gerbi, non solo non esiste, ma non è neppure un luogo, è un uomo. Il capo di una nazione Chibcha che, una volta all’anno, dopo essersi cosparso il corpo nudo di una finissima polvere d’oro, si immergeva in un lago e ne risorgeva ripulito, sacrificando quella polvere metallica agli dèi. Un intero continente, maledetto dall’oro, ha cercato con sangue e furore, per decine e decine d’anni, un luogo che era un uomo.

Non so perché questa storia mi sembra attualissima quando sento esterrefatto il discorso che tiene in pubblico davanti a studenti, professori e ospiti italiani una studentessa quindicenne dell’italiano «Colegio Raimondi»: «Scegliamo meglio gli uomini che ci devono rappresentare - dice come una futura presidente - creoli, quechua, aymara, il nostro potenziale non sta in vani progetti in cui nessuno crede ma nella ricchezza che sono le nostre diversità». Il Perù, e per estensione tutta l’America latina, come luogo di contesti, come pensava il grande scrittore cubano Alejo Carpentier, in cui vanno valorizzati tutti gli aspetti, e non solo, banalmente, di contrasti, in cui prima o poi una parte deve prevalere sull’altra.
 

L'ULTIMA SCOPERTA

Quelle maschere vecchie di 1700 anni

Apparterrebbero a un notabile della cultura pre-incaica Mochica, vissuto presumibilmente circa mille e settecento anni fa, le sei maschere funerarie di rame dorato con tratti di felini e piccoli denti in madreperla scoperte all’inizio del mese nella necropoli di Huaca Rajada, vicino alla località costiera di Chiclayo, 655 chilometri a nord-ovest di Lima, in Perù. Secondo l’archeologo Walter Alva, i reperti sarebbero dai 60 ai 70 anni più antichi del sacrario del «Signore di Sipan», il cosiddetto «Tutankhamon delle Americhe», rinvenuto nel 1987 e considerato il monumento funebre più maestoso scoperto nell’intero continente americano.

 

(La Stampa.it)