La polvere sugli sposi

Era meglio posizionare il trasmettitore in alto
e lo appoggiai in cima al grande armadio...

Parcheggiai la macchina in uno spiazzo, a una cinquantina di metri dalla villa. Mi avvicinai al cancello con le orecchie tese, stringendo le chiavi nella tasca. Si sentivano solo i versi degli uccelli, come sempre. Aprii in fretta lucchetti e serrature e m’infilai in casa. Qualche filo di sole entrava dalle fessure degli scuri, ma non bastava nemmeno per vedere dove si mettevano i piedi. Accesi la torcia. Ogni volta che entravo là dentro mi sentivo stringere l’intestino. Non vedevo l’ora di andarmene, ma al tempo stesso ero catturato dall’emozione... soprattutto quel giorno.

Avanzai nell’ingresso, attento a cogliere ogni minimo rumore. Il brivido della paura mi piaceva, era quasi tonificante, ma se immaginavo presenze ultraterrene correvo a chiedere aiuto alla ragione. Questa lotta mentale mi faceva sudare anche la faccia.

Imboccai le scale. A un tratto sentii un rumore sordo e qualcosa mi passò fra i piedi. Feci un balzo e mi trovai quattro gradini più su. Illuminai le scale. Un ratto grosso come una mano stava scendendo a salti gli ultimi scalini. Se avessi avuto una pistola gli avrei sparato.

Mi asciugai la fronte con la mano e aspettai che il cuore rallentasse un po’. Avevo la bocca secca. Feci un bel respiro e continuai a salire.

Arrivai davanti alla camera maledetta e spinsi piano la porta. Puntai la torcia verso il letto. Quelle vecchie lenzuola insanguinate raccontavano la loro storia per l’eternità. Avevo davanti agli occhi le immagini di quella notte... sentivo nelle orecchie le urla di quella povera donna che veniva sbranata... Ma da chi? Vedevo penzolare quello sventurato di suo marito, con la lingua fuori dalla bocca e gli occhi spalancati... e vedevo una bambina nascosta sotto il letto...

Strinsi i denti e illuminai tutto intorno, cercando il nascondiglio più sicuro per la prima trasmittente. Avevo scelto quella stanza, sicuro che le voci provenissero proprio da lì. Questo pensiero mi fece accapponare la pelle. Dovevo concentrarmi su qualcosa di concreto, allontanare quella sensazione di pericolo che negli ultimi secondi era diventata troppo forte. Fingevo con me stesso di essere tranquillo, fischiettando mentalmente la fanfara dei bersaglieri.

Nelle istruzioni avevo letto che era meglio posizionare il trasmettitore in alto, e lo appoggiai in cima al grande armadio. Andava benissimo. Non stavo mettendo una cimice nell’ufficio di un uomo politico, che magari poteva aspettarselo. Nessuno l’avrebbe mai trovato, nemmeno i fantasmi.

Mi venne la curiosità di guardare dentro l’armadio, per vedere se anche là dentro fosse rimasto tutto fermo a quel giorno. Dopo qualche esitazione socchiusi un’anta, e una nuvola di farfalline brillò sotto la luce della torcia. Spalancai l’armadio e illuminai dentro. Dalle grucce pendevano i resti di eleganti abiti femminili, divorati dalle tarme. Sul ripiano in basso c’erano dei vestitini da neonato ancora nelle confezioni. Avevo la sensazione di profanare un tempio antichissimo. Aprii un cassetto. Dentro erano allineate molte paia di scarpe da donna, misura trentasei o al massimo trentasette. Un paio erano argentate, linea molto chic, con il tacco a spillo ma non troppo alto. Ne presi una in mano, era leggera come una piuma. Roba d’altri tempi... per certi versi tempi lontanissimi, anche se in fondo erano vicini.

Richiusi l’armadio. Possibile che non ci fosse nemmeno una foto dei due sposi? Aprii i cassetti del comò, ma c’era solo biancheria imputridita. Cercai nei comodini e finalmente trovai una foto, incorniciata in un ovale di velluto rosso. Passai un dito sul vetro per togliere la polvere, ma era così appiccicosa che dovetti aiutarmi con un fazzolettino inumidito di saliva. Mi apparvero i visi allegri dei due sposi al banchetto nuziale. Accanto a lui la signora Rondanini, giovane e fiera. Accanto a lei un signore raffinato e giovanile con i capelli tutti bianchi. Forse suo padre? Erano tutti vestiti molto eleganti, alla moda degli anni Sessanta. Tutti sorridenti. Nessuno di loro sapeva ancora quello che doveva succedere. Le fotografie avevano qualcosa di crudele, nel far scavalcare il tempo a momenti che non esistevano più. Rimisi la foto a posto e chiusi il cassetto. Ormai avevo guardato dappertutto. Prima di uscire controllai di nuovo le impronte di sangue che imbrattavano il pavimento, per vedere se me ne fosse sfuggita una del cane. Non ce n’erano. Uscii dalla stanza e chiusi la porta con rispetto.

Cominciai a scendere i gradini spazzando il buio con la torcia, per non farmi sorprendere da un altro maledetto topo. La seconda trasmittente volevo piazzarla a piano terra. Arrivai in fondo alle scale, e utilizzando la parte adesiva attaccai la radio-spia sotto il bordo sporgente dell’ultimo scalino. Non mi restava che andarmene.

Appena arrivai in camera attaccai il ricevitore Usb al computer, e installai il software per la registrazione. Era possibile ascoltare i suoni dall’altoparlante e al tempo stesso salvarli sul disco rigido. Misi tutto in funzione. Era emozionante. Potevo ascoltare non visto i rumori della villa, come se le mie orecchie fossero lassù. La sensazione di spiare mi aveva sempre dato brividi di piacere. Mi ricordai di quando ero bambino e i miei invitavano amici a cena. Facevo finta di andare a dormire, ma dopo un po’ mi alzavo e camminavo a piedi nudi lungo il corridoio buio, strusciando le dita sul muro per camminare diritto. Gli ultimi metri li facevo a quattro zampe, con il sorriso sulle labbra e il terrore di essere scoperto. Arrivavo alla porta del salotto e mi sdraiavo in terra. Dallo spiraglio che mia madre lasciava sempre aperto spiavo i miei genitori e gli invitati che ridevano, mangiavano, bevevano... inondati di luce come se fossero in paradiso. In quei momenti sentivo nella pancia un formicolio così forte che per non scoppiare a ridere dovevo mordermi le labbra...

Quando mi sdraiai vestito sul letto erano appena le undici. Chissà a che ora tornava Camilla. Avrei aspettato che mi chiamasse lei. Per rispetto. E un po’ anche per non fare l’innamorato ansioso. Anzi, a dire il vero, solo per questo. Ero stanchissimo, ma la tensione m’impediva di dormire. La visita alla villa mi aveva lasciato addosso una sensazione sgradevole. Avevo come il presentimento che stesse per succedere qualcosa di brutto... ma era sicuramente colpa della stanchezza. Avevo dormito sì e no tre ore, e il cervello affaticato non era un buon amico. Non dovevo lasciarmi suggestionare. Ma il sonno non arrivava, e fuori c’era il sole. Cosa ci facevo a letto? Mi alzai di nuovo e bevvi un altro caffè.

Montai in macchina. Arrivai in fondo allo sterrato e imboccai la provinciale nella direzione opposta a Fontenera. Infilai nel lettore un quartetto di Schubert, e la campagna diventò più bella. L’aria era così limpida che si potevano contare le olive sulla collina di fronte. La stanchezza sembrava passata, e mi sentivo quasi allegro. Magari incontravo Camilla e scopavamo in un campo, con i grilli che ci saltavano intorno. Nascosi il numero del mio cellulare e provai a chiamarla. Irraggiungibile. Se avessi trovato libero avrei riattaccato. Doveva essere lei a cercarmi.



(Continua)
 
 

(La Stampa.it)