Il futuro del "globish"

Parlato da un quarto della popolazione mondiale
l’inglese globale morirà come è accaduto al latino?

NEW YORK, 11 aprile 2007. - Potrà la lingua globale diventare eterna? O sarà destinata un giorno a morire come è accaduto al latino? Il soggetto della domanda su cui si appassionano a dibattere storici e linguisti è naturalmente l'inglese. La cui diffusione nel mondo appare oggi senza ostacoli, aiutata in modo sostanziale dal fatto che è il linguaggio di internet e che l'ottanta per cento delle informazioni elettroniche scelgono l'idioma di Shakespeare. La demografia potrebbe indicare un percorso diverso, visto che cinesi, indiani e ispanici crescono a ritmi sconosciuti in occidente, ma sempre di più i figli dell'Asia e dell'Africa studiano l'inglese per giocare da protagonisti la partita della globalizzazione. Così oggi un quarto delle popolazione mondiale è in grado di parlarlo almeno ad un livello elementare.

L'International Herald Tribune, in un'inchiesta del corrispondente asiatico Seth Mydans, che fa parte di una serie sulla globalizzazione, è andato ad interrogare esperti di tutte le latitudini, trovando pochi scettici e molti convinti assertori della teoria dell'eternità. David Crystal, autore del libro "English as a global language", sostiene che per la prima volta nella storia esiste una lingua parlata in ogni Paese del mondo ed è dominante in un modo mai esistito prima. Ed è la lingua non solo del web, ma anche della scienza, del traffico aereo, e perfino della jihad globale.

Ma è un linguaggio in continua evoluzione, elastico, imbastardito. Forse è questa l'unica chiave che ne può garantire davvero il futuro: la capacità di adattarsi e cambiare. I popoli colonizzati da tempo si sono presi la rivincita sulla lingua della Regina, ne hanno fatto la cifra della loro scrittura imponendogli evoluzioni impensate, basti pensare al peso degli scrittori indiani a partire da Salman Rushdie.

A raffreddare i troppo ottimisti però ci pensa Nicholas Ostler, autore di una storia della lingua: "Anche a metà del quindicesimo secolo in Europa il futuro del latino appariva estremamente radioso", avverte. C'è poi il rovescio della medaglia per i trionfanti anglosassoni, lo ha raccontato meglio di tutti l'editorialista del New York Times Thomas Friedman nel suo "Il mondo è piatto": oggi un neolaureato indiano è in grado di fare lo stesso lavoro di un suo coetaneo americano alla metà del prezzo e nella stessa lingua. Se poi l'università ha gli stessi programmi e per di più in inglese, allora si capisce perché le tasse di mezza Manhattan vengano ormai fatte a Bombay.

La scorsa settimana, Alan Blinder, economista di Princeton e assistente di Clinton, ha lanciato il suo allarme sulle delocalizzazioni dei posti di lavoro intellettuali, figlie della diffusione di internet e dell'inglese. In dieci anni, sostiene, saranno a rischio 40 milioni di posti di lavoro americani, che se ne andranno soprattutto in Oriente, non solo contabili e analisti finanziari ma anche graphic designer, matematici e microbiologi. Il suo è uno studio impressionante, e, come dice Friedman: pensateci bene prima di scegliere l'Università di vostro figlio, molti lavori tra pochi anni in Occidente non esisteranno più.

Certo il paese in cui si parla più spagnolo nel mondo sono proprio gli Stati Uniti, dove il 18 per cento della popolazione, 47 milioni di persone, parlano in casa una lingua che non l'inglese. Tanto che a Santa Ana, a sud di Los Angeles, gli imprenditori hanno lanciato una campagna da 4,5 milioni di dollari per insegnare l'inglese ai lavoratori. In questa cittadina californiana con 350mila residenti, meno del 15 per cento degli abitanti parla inglese e un impiegato capace di parlare e scrivere correttamente nella lingua ufficiale degli Usa è ormai una rarità.

Ma il latino, a raccontarci ancora il potere millenario che ha avuto, spunta dove meno te lo aspetti, dietro il bancone del minuscolo Nosh cafè su Madison Avenue. "Non scholae sed vitae discimus", ripete a bassa voce il proprietario Andrew Spitz, "Impariamo per la vita, non per la scuola". E' scappato dall'Ungheria nel 1956 e ricorda: "A Budapest se volevi diventare avvocato, professore o medico dovevi studiare il latino per cinque anni, per me è rimasta la lingua universale, non ho dimenticato niente".

 

Da Repubblica.it