Non è stato Buch
a uccidere la mamma

Camilla si era attaccata di nuovo al mio braccio:
in quel momento la sola cosa che mi piacesse.

Mi alzai per mettere altra legna sul fuoco, sperando che la bella dottoressa non se ne andasse troppo presto. Tornai a sedermi accanto a lei, un po’ più vicino di prima.

«E di quelle voci su alla villa cosa ne pensi?».

«Penso che devi cambiare pusher». Sorrise.

«Credi che mi sia sbagliato, come dice il maresciallo?».

«Potrebbe essere...».

«Ti assicuro di no, ho sentito bene un uomo e una donna che litigavano. Una classica scenata di gelosia».

«Ma la villa è disabitata da secoli».

«Appunto. Magari ci sono i fantasmi».

«Ma dai...».

«Trovami un’altra spiegazione».

«Hai ancora le chiavi della villa?».

«Certo».

«Andiamoci insieme».

«Se ci tieni tanto... Domattina sei libera?».

«Io dicevo adesso».

«Adesso?».

«Hai paura?».

«Macché paura... solo che non ho voglia di prendere freddo». Mentivo.

«Io invece ho paura, ma mi piacerebbe andarci lo stesso».

«Anche con questa luna?».

«Non è ancora piena...».

«Però è bella grande».

«E allora? Noi lo sappiamo bene che i lupi mannari non esistono... e nemmeno i fantasmi».

«Certo, ma preferisco stare di fronte al fuoco a bere vin santo».

«Anche io, però vorrei andarci lo stesso» ripeté lei, staccando la schiena dalla spalliera. Alla luce della fiamma i suoi occhi neri luccicavano di curiosità e di paura. Non avevo mai visto una ragazza bella come lei. È vero, l’avevo pensato altre volte, ma non con quella intensità. Lei aveva qualcosa di veramente speciale...

«Allora?» disse lei. Non volevo deluderla, e soprattutto non volevo fare la figura del fifone.

«Andiamo». Vuotai il bicchiere in un sorso e mi alzai. Un vero uomo.

Uscimmo di casa e montammo sulla Fiesta. Guidavo io. Salivamo su per la collina senza dire una parola, con le ruote che slittavano sui sassi. Eravamo tesi. Fuori dalla luce dei fari dominava il nero del bosco.

Parcheggiai davanti al cancello della villa. Accesi la torcia e scendemmo, scambiandoci brevi occhiate. Aprii il lucchetto ed entrammo nel giardino. Ci avviammo sulla ghiaia affiancati, sfiorandoci le spalle a ogni passo.

«Devo ammettere che fa un certo effetto» bisbigliò Camilla.

«È solo suggestione». Lo dissi soprattutto per me stesso. A un tratto lei si attaccò al mio braccio e indicò il buio.

«Che c’è laggiù?» sussurrò, facendomi sobbalzare. Puntai la torcia e vedemmo un gatto che scappava. Ma ormai il cuore mi batteva nelle tempie.

«Non farlo mai più» dissi tra i denti.

«Scusa, ho visto un’ombra e...».

«Sssst».

Arrivammo al portone senza fiatare, tendendo le orecchie. Aprii senza far tintinnare le chiavi e c’infilammo nella villa. Camilla mi stava appiccicata come una zecca. Trattenendo il fiato salimmo al primo piano. Era la terza volta che giravo l’angolo di quel corridoio.

«La stanza è questa» sussurrai. Spinsi la porta, e rimanemmo fermi sulla soglia. Illuminai per lei quello che avevo già visto due volte... il letto, le chiazze sul pavimento, gli schizzi sugli intonaci, le impronte delle scarpe che avevano camminato sul sangue. Per ultimo il cappio, che pendeva dal soffitto come una minaccia. Camilla si era attaccata di nuovo al mio braccio, e in quel momento era la sola cosa che mi piacesse. La invitai a entrare nella stanza, e avanzammo insieme. Fingevo di essere rilassato, ma non vedevo l’ora di andarmene. Le indicai l’impronta della manina sul muro, poi illuminai il pavimento per farle vedere quelle che a me sembravano tracce di scarpette da bambina.

«Sì, potrebbero essere...» bisbigliò Camilla.

«Ormai sono quasi certo che quel giorno Rachele si era nascosta sotto il letto». Parlavamo sottovoce, come fossimo a teatro.

«Continuo a sperare di no» disse lei.

«Anch’io, certo. Ma se invece ho ragione... forse conoscendo la vera causa del suo male, qualcuno potrebbe tentare di guarirla».

«Non ci giurerei».

«Nemmeno io, ma non ci si deve sempre rassegnare al destino». Continuai a illuminare per terra, con la sensazione che mi stesse sfuggendo qualcosa. Camilla seguiva la luce che correva sul pavimento, stringendomi il braccio. A un tratto capii cosa c’era che non tornava.

«Cazzo... Oh, scusa».

«Non ti preoccupare, so cosa significa» sussurrò Camilla. Non mi sembrava il caso di aprire una discussione sull’argomento.

«Guarda bene. Non ti sembra che manchi qualcosa?» Feci scorrere la luce della torcia sul pavimento, nello spazio tra le due pozze di sangue più grandi, quella accanto al letto e quella lasciata dal cane.

«Le orme dello yeti?» fece lei.

«Dico sul serio, guarda... Non c’è una sola impronta del cane».

«E allora?».

«Pensaci bene. Un cane sbrana una donna e non si macchia nemmeno le zampe di sangue... Non c’è una sola impronta di Buch, da nessuna parte. Ti sembra normale?».

«Non so... Secondo te che vuol dire?» Era un po’ agitata, e le misi un braccio intorno alle spalle.

«Può significare solo una cosa. Il cane lupo è stato ucciso appena è entrato nella stanza, proprio lì, dove c’è quella macchia scura. Per questo non ha camminato sul sangue».

«Scusa, mi stai dicendo che a uccidere la mamma di Rachele non è stato Buch?».

«Esatto».

«E allora chi è stato?».

«Non lo so. Ma lo dice sempre anche Rachele... non è stato Buch, non è stato Buch...».

«Ti faccio presente che Rachele è malata di mente».

«Non importa. Domani torno dalla signora Rondanini e la metto alle corde».

«Perché non la lasci in pace, povera donna?».

«Vorrei, ma è più forte di me».

 


 

Era vero. Ormai quella faccenda mi ossessionava, più di quanto avrei mai immaginato. E ancora di più dopo quell’ultima scoperta. Se davvero Buch non c’entrava nulla, dietro la tragedia dei Rondanini si nascondeva qualcosa di ancora più orrendo. Magari un omicidio premeditato, oppure un raptus di follia suicida della povera donna. Cominciavo a pensare che in quei dintorni le malattie mentali fossero un prodotto locale.

«Andiamo via» sussurrò Camilla, tirandomi per un braccio.

«Perché non dormiamo qui?». Volevo fare il simpatico. Lei mi tirò più forte e ce ne andammo.

Uscire all’aria aperta fu un grande sollievo, anche se il giardino buio faceva più paura di prima. Lo attraversammo in fretta e uscimmo dal cancello. Richiusi il lucchetto. Dal bosco arrivavano strani rumori, come di grossi animali che si muovevano tra i cespugli.

«Cinghiali...» dissi, sperando di non sbagliarmi. Montammo in macchina e scendemmo giù per il sentiero, senza parlare. Non facevo che pensare a Rachele. Ero sempre più convinto che avesse assistito all’uccisione di sua mamma, e che fosse proprio quella la causa del suo stato mentale. Non era nata pazza.

In cucina l’aria era tiepida, ma il fuoco era quasi alla fine. Misi sulla brace un paio di ciocchi belli grossi, sperando di vederli consumare insieme alla dottoressa. Ci sedemmo sul divano e riempii i bicchieri. Camilla sorrise.

«Ho l’impressione di non essermi mai mossa da questa stanza».

«Forse è davvero così».

Continuammo a parlare di Rachele e di polli sbranati, di fantasmi, di lupi mannari, di libri, di film, di cucina... Spiavo i particolari del suo viso... la fronte, le orecchie, le sopracciglia, il naso, il mento, la bocca... mi fermai sulla bocca. Bevvi un sorso, appoggiai il bicchiere sul pavimento e mi alzai. O la va o la spacca.

«Alzati un attimo». Ero immobile di fronte a lei.

«Perché?».

«Solo un attimo...».

«Spero che ci sia un buon motivo».

«Per saperlo devi alzarti in piedi».

Camilla si alzò con un sospiro. Le presi il viso tra le mani. Mi guardava con un sorriso strano, come se potesse manovrarmi come un burattino. Avvicinai la bocca alla sua, e lei non si mosse. Allora la baciai, senza stringerla. Volevo essere delicato. Le nostre lingue sapevano di vino e di sigaretta. Quando mi staccai lei si rimise a sedere.

«Mi hai fatto alzare solo per questo?».

«Posso anche farti vedere la mia collezione di farfalle».

«Ne hai una portatile?».

«No, purtroppo è in camera mia...».

«Non scopo mai al primo invito» disse lei, sorridendo.

«Problemi morali?» chiesi, per fare il simpatico. Ero anche un po' imbarazzato dalla sua franchezza.

«Spero che non sia una domanda seria».

«Guarda che nemmeno io scopo al primo invito».

«Attento a non voltare la testa, potresti sbattere il naso contro il muro».

«Non ci credi?».

«Meno che ai lupi mannari» disse lei, sempre sorridendo. Forse lo sapeva che il suo sorriso mi annebbiava la vista. Mi tirò giù per un braccio e mi baciò di nuovo. Una volta sola. Poi guardò l’ora e si alzò.

«Domattina devo svegliarmi presto» disse, con il tono più normale del mondo. Non era per niente sconvolta dalla potenza dei miei baci.

«Quando ti rivedo?».

«Andiamo sempre peggio, casanova... Se continui così posso dialogare da sola».

«Sono un po’ arrugginito» dissi arrossendo. Lei si mordicchiò le labbra, consapevole del suo potere. Prese il giubbotto e ci avviammo verso il grande distacco.

La Fiesta era ricoperta da un velo di umidità. Accanto alla portiera aperta ci baciammo ancora, questa volta stringendoci forte. Sentire quel corpicino tra le braccia mi fece sentire un gigante cattivo. La luna era bellissima, e in quel momento il lupo mannaro ero io.

«Il vino era davvero buono» disse Camilla, liberandosi dai miei tentacoli.

«Che poesia. Dopo una frase così posso anche morire».

«Anche la pasta era ottima».

«Come sei romantica...».

«Dico sul serio. Non immaginavo che un animale di sesso maschile potesse arrivare a tanto».

«I soliti pregiudizi. Anch’io per anni ho pensato che le donne non avessero l’anima».

«E avevi ragione» disse lei entrando in macchina.

«I maschi hanno sempre ragione».

«Buonanotte, casanova».

«Sogni d’oro». Il rumore della portiera segnò la fine di tutto.

Rimasi a guardare la Fiesta che si allontanava sulla strada sterrata, pensando che Camilla non aveva mostrato nessuna curiosità per le vere opere del grande Emilio Bettazzi. Forse non lo faceva mai al primo invito.

(Continua)
 

(La Stampa.it)