Troppe morti «contro natura»
Tornano i soliti dubbi e sospetti

L'improvvisa scomparsa di Daniel Jarque,
capitano dell'Espanyol di Barcellona.

Daniel Jarque. Aveva 26 anni.

 

10 agosto 2009. - Le domande, forse, sono sempre le stesse. A crescere, invece, sono i sospetti, le allusioni, i dubbi. Solo le certezze diminuiscono, fin quasi ad azzerarsi. E allora: cosa sta succedendo in Spagna? È possibile morire così, a 26 anni, mentre si parla al telefono con la ragazza? Ed è possibile che queste morti vadano imputate solo alla fatalità? Due anni fa Antonio Puerta, giovanissimo giocatore del Siviglia, ucciso in campo da un infarto, durante una partita col Getafe.

L’altro ieri il capitano dell’Espanyol Barcellona, Daniel Jarque, ancora un infarto mentre riposava nella sua stanza d’albergo a Coverciano. Nel mezzo, il 31 ottobre scorso, la sincope che ha colpito il centrocampista del Real Madrid Ruben de la Red: il ragazzo si è salvato ma non potrà più giocare a calcio.

Tre tragedie in 2 anni: non può es­sere solo fatalità. Del resto, sono proprio le dichiarazioni dei dirigenti e dei medici che ci portano a dubitare di questa «pista». Ancora una volta, tutti ci dicono che «Jarque non aveva mai avuto problemi fisici, tutti i controlli avevano dato esito negativo».

E e allora: com’è possibile morire così? Cosa sta succedendo in Spagna? Cosa succede, più in generale, al mondo dello sport? Le morti sul campo di questi atleti — persone che dovrebbero simboleggiare il top del vigore fisico — ci appaiono come morti «contro natura ». E intorno alle morti «contro natura» (15 nel calcio professionistico dal ’99 a oggi, ancora di più nel ciclismo), specie se non si hanno certezze e se non si crede al caso, inevitabilmente finiscono col prendere linfa timori, dubbi, sospetti. Timori, dubbi e sospetti che portano sempre lì, alla domanda delle domande a cui tutti pensano ma che nessuno pone apertamente: che legame c’è, se c’è, tra tutte queste morti nello sport di élite e il doping? Questa tragica escalation può avere a che fare con il disumano ricorso all’ «aiuto» farmacologico?

Non è più una questione di sport: il calcio non è meglio del ciclismo, come il nuoto non è meglio del calcio e così via. E non è neanche una questione di Paesi: l’Italia non è meglio della Spagna, come la Spagna non è meglio della Francia o dell’Est europeo e così via. Il fatto è che da troppi anni di sport si muore. Senza una ragione apparente. La Spagna, negli ultimi tempi, è sembrata solo più «spregiudicata» di altri, forse per recuperare il tempo perduto.

L’Operacion Puerto — con la quale è stata portata alla luce una delle più grandi centrali di doping mai scoperte nel nostro continente — non è che la punta dell’iceberg. Ma non ha fatto aprire abbastanza occhi. A Madrid, dal dottor Eufemiano Fuentes, si è sempre sospettato (e vociferato) il passaggio di alcuni tra i più prestigiosi club calcistici spagnoli; il passaggio di non poche star del football ma pure del tennis, del ciclismo e dell’atletica leggera.

Star spagnole, naturalmente, ma pure francesi, italiane e di altre nazioni ancora. «Doping di Stato», possiamo dire. Lo stesso che abbiamo conosciuto in Italia tra gli anni 80 e 90, che ha imperato nell’ex Unione Sovietica e nei Paesi ad essa collegata (Germania Est su tutti), che si è sviluppato nel Nord Europa, in Francia, in Grecia. È il momento di prenderne atto? Di interrogarsi senza ipocrisia? Di capire davvero? Forse sì. A meno che non sia «questo» lo sport che «ci piace» e che «vogliamo». Uno sport senza domande. Capace di tollerare abusi e malcostume criminali, di convivere con le morti di atleti nel pieno della vita, di trovare normali valanghe di record del mondo che durano mezza giornata men­tre prima resistevano per anni.

(Giuseppe Toti / Corriere.it)